Il contratto di franchising è un contratto atipico, nel senso che non è disciplinato espressamente dal nostro ordinamento. Tuttavia, il Codice Civile, all’art.1322 prevede che le parti possano concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, sempre ce siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Questa previsione non lascia dubbi, quindi, sulla liceità del contratto di franchising o di affiliazione commerciale, che consiste nella possibilità concessa da un soggetto, detto franchisor, a un altro soggetto, denominato franchisee, di vendere i propri prodotti previa utilizzazione del marchio del primo e l’utilizzazione dei segni distintivi, ovvero di un brevetto d’invenzione, del know how e della sua assistenza dietro la corresponsione di una somma fissa periodica e di pagamenti legati al volume degli affari maturati, grazie allo sfruttamento dell’immagine, del marchio e degli strumenti messi a disposizione del franchisor.
In pratica, siamo davanti a un contratto stipulato tra due imprenditori. Il franchisor è chiamato anche affiliante, mentre il franchisee è detto anche affiliato. Il contratto prevede obblighi a carico di entrambe le parti. Il franchisor è tenuto ad addestrare e mettere a disposizione del franchisee il personale adatto da impiegare presso l’attività di questo, ha obblighi di assistenza e deve trasferire al franchisee la licenza per l’utilizzazione della propria formula commerciale, incluso il diritto di sfruttamento del know how e dei segni distintivi.
Gli obblighi del franchisee consistono tipicamente nell’obbligo di adeguarsi agli standard di qualità del franchisor, nella segretezza, nell’effettuare i pagamenti pattuiti e nell’utilizzo dei segni distintivi del franchisor nei limiti della licenza che questi gli ha concesso.
Oltre al Codice Civile, anche la Costituzione, all’art.41, di fatto rende il contratto di franchising perfettamente compatibile con il nostro ordinamento giuridico, nel punto in cui garantisce le aggregazioni, le affiliazioni e le collaborazioni tra imprese. Non ultimo, un D.M. del 2001 definisce il contratto di franchising come accordo che comporta la licenza di un insieme di diritti di proprietà immateriale che riguardano marchi, insegne e know how, relativamente all’uso e alla distribuzione di beni e servizi.
Esistono tre principali tipi di franchising, del produttore, di distribuzione e di servizi. Nel primo, l’affiliante è un’impresa industriale, che produce i beni e li distribuisce tramite una rete di affiliati. Forse conoscete i negozi mono marca, questi non sono altro che un esempio di franchising di produzione, perché un’azienda produce i capi di abbigliamento e li vende attraverso una rete di negozi, sparsi nell’ambito di un determinato territorio, arrivando così al cliente.
Il franchising di distribuzione si ha quando, invece, il franchisor acquista grandi stock di prodotto da diversi produttori e li rivende a una rete di affiliati. Esempi di questo tipo sono oggi grosse catene come Coin, Oviesse e Upim. In pratica, un soggetto di rilevanti dimensioni seleziona un gruppo di fornitori dai quali acquista beni o servizi, dopo avere concordato gli standard qualitativi da rispettare. Una volta effettuati tali acquisti, li distribuisce alla rete degli affiliati, facendo giungere al consumatore finale i prodotti dei fornitori, che probabilmente non potrebbero altrimenti essere piazzati su un mercato di dimensioni di un certo tipo e non a questi prezzi.
Infine, troviamo il franchising di servizi, che non distribuisce un prodotto, ma come spiega la stessa espressione servizi. Pensate alle catene di ristoranti, alle agenzie di viaggi o di mediazione nel campo del credito o dei servizi Internet.
Da un punto di vista pratico, quando il franchisee fa richiesta al franchisor di godimento dei relativi servizi, questo verifica che esso possegga le caratteristiche qualitative e professionali minime per accedere al business.
Un aspetto di rilevante importanza è dettato dalla territorialità della richiesta. Per esempio, se nello stesso luogo esiste già un negozio di abbigliamento mono marca, aperto in franchising sotto lo stesso marchio, il franchisor tende a respingere la richiesta o a subordinarla all’apertura dell’attività in un luogo non coperto e con una distanza minima dal punto vendita già esistente. In questo modo, garantisce a ogni affiliato la possibilità di maturare un fatturato minimo, legato alla popolazione residente e alla situazione economica e commerciale dell’area. Anche per questo il contratto di franchising appare abbastanza allettante per i principianti di un settore, che possono almeno confidare nell’assenza di concorrenza diretta nel luogo di attività.
Tuttavia, proprio perché il franchising garantisce certamente alcuni vantaggi non indifferenti, comporta anche costi. Il franchisor chiede generalmente i costi di ingresso, ovvero a un pagamento, che il franchisee deve corrispondere all’atto dell’avvio del rapporto. Il costo può essere più o meno elevato, a seconda del potere di mercato del franchisor. Se questi è un marchio ambito, per esempio, attivo nella mediazione creditizia, un agente che volesse aprire una sede in un dato luogo potrebbe essere chiamato a sborsare una cifra iniziale anche alta, ma che viene giustificata dai vantaggi garantiti all’attività.
Oltre a questo canone, vengono anche richieste le royalty, ovvero pagamenti legati al volume degli affari periodici. Si tratta, in pratica, di una somma da corrispondere al franchisor per i servizi offerti, che non consistono solo nella concessione del marchio, ma per quanto detto sopra, anche nell’assistenza tecnica, materiale, professionale, il tutto teso a garantire standard minimi di qualità.
Il franchising diventa un contratto abbastanza conveniente per imprenditori che vogliano distinguersi in un certo ambito locale, fornendo beni o servizi dal marchio già riconoscibile e considerato ambito dai consumatori. In sostanza, è come se non si partisse da zero, come se si trattasse di un’attività dalle caratteristiche note al mercato e, pertanto, con un valore iniziale più elevato di quello che avrebbe un’attività aperta in solitaria e senza marchio distintivo. Nel caso del franchising di distribuzione, poi, sia i fornitori che gli affiliati possono avere convenienza a legarsi al franchisor. I primi, in quanto riescono così a vendere i beni a prezzi forse inferiori di quelli altrimenti spuntabili con imprese dal minore potere di mercato, ma garantendosi una commessa sicura e pari al totale dell’offerta che rispetti gli standard di qualità richiesti. I secondi, perché riescono a commercializzare prodotti, che sono già noti alla clientela e che, pertanto, posseggono un valore intrinseco superiori a quelli concorrenti.
Si consideri anche che un’impresa che decide di aprire un punto vendita in franchising, va incontro generalmente a costi di avviamento di molto più bassi di quelli che dovrebbe altrimenti sostenere. Per esempio, la pubblicità dell’apertura è spesso a carico del franchisor, così come il costo d’ingresso potrebbe coprire l’arredo del negozio o agenzia e ogni altra spesa relativa al punto vendita. Cosa non meno importante, il franchisor si occupa anche del disbrigo degli affari burocratici, sgravando il franchisee da incombenze anche gravose in Italia. Per non parlare del fatto, che il franchisee gode sin dall’inizio di un marchio riconoscibile, non avendo l’esigenza di puntare grossi investimenti per farsi conoscere o per convincere i consumatori della bontà dei prodotti venduti. In un certo senso, è come se si trovasse già una domanda minima già disponibile. I costi iniziali per godere del franchising e quelli legati ai volumi d’affari, quindi, appaiono del tutto giustificati e se non lo fossero, nessuna impresa sarebbe disponibile a sobbarcarsene, rendendo la formula fallimentare.