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Diritto Facile

Guide Facili per Capire il Diritto Online

Guide

Intervento nel Processo – Guida

In questa guida spieghiamo i diversi tipi di intervento nel processo.

L’INTERVENTO VOLONTARIO

Dopo l’avvio del processo si può verificare l’intervento volontario di cui all’art. 102 c.p.c., ossia di una successiva attuazione del litisconsorzio che può verificarsi anche indipendentemente dalla integrazione del contraddittorio mediante l’ingresso spontaneo o coatto di uno o più soggetti nel processo in corso.
Tale ingresso di terzi nel processo in corso si spiega come legittimazione per la necessità o la facoltatività del litisconsorzio, in quanto si verifica mediante “chiamata” del terzo in giudizio, il quale dà luogo ad intervento volontario e ad intervento coatto.
La legge prescrive l’intervento del terzo in giudizio per ragioni di necessità o di connessione tra cause, in quanto considera:
a) la legittimazione ad intervenire spontaneamente o la legittimazione attiva ad intervenire (intervento volontario);
b) la legittimazione passiva a subire l’intervento ossia ad esser chiamati in giudizio (intervento coatto).
In entrambi i due casi, l’intervento realizza un litisconsorzio in corso di causa, che determina una connessione oggettiva tra l’azione in corso e l’azione che il terzo intende esercitare o che si vuole esercitare nei suoi confronti.
Quanto all’intervento volontario di cui all’art. 105 c.pc., il terzo da valere un suo diritto connesso all’oggetto del giudizio in corso, sia per petitum che per causa petendi.
L’interesse del terzo nell’intervenire nel processo in corso consiste non tanto perché la sentenza (inter alios) sia a lui opponibile e possa pregiudicarlo nel suo diritto, ma soprattutto per i risvolti pratici che possono derivare da tale sentenza i cui effetti possono estendersi nei suoi confronti.
Del resto, la legge consente al terzo che non sia intervenuto in giudizio la c.d. opposizione di terzo di cui all’art. 404 c.p.c. contro la sentenza che produce effetti nei suoi confronti.
L’intervento volontario è di due tipi:
a.1) intervento principale, se il terzo fa valere, ossia afferma, un diritto autonomo con quello delle altri parti (art. 105, comma 1, c.p.c);
a.2) intervento litisconsortile:
– adesivo autonomo, se il terzo fa valere il suo diritto soltanto contro alcune delle parti ovvero adesivo dipendente se il terzo
– adesivo dipendente, se il terzo non fa valere un proprio diritto ma si limita a sostenere il diritto di un’altra parte del processo, per cui la sua posizione non è autonoma ma riflessa, condizionata, dipendente da quest’ultima.
Gli articolo 267 e 268 c.p.c. disciplinano le modalità di attuazione dell’intervento volontario, che riflettono la disciplina del processo di cognizione.

L’INTERVENTO COATTO A ISTANZA DI PARTE

L’intervento coatto si realizza
a) ad istanza di parte
b) o quando è chiamato in corso di giudizio.
L’intervento coatto ad istanza di parte determina la posizione processuale del terzo come convenuto, in quanto citato in giudizio ai sensi di cui all’art. 106 c.p.c.
Il terzo è convenuto in giudizio o chiamato da una delle parti per comunione della causa o perché si pretende da lui la garanzia, per cui vi è connessione oggettiva.
L’intervento del terzo determina altresì una situazione di litisconsorzio, in quanto lui stesso avrebbe potuto intervenire per rivendicare un proprio diritto ovvero proporre un intervento adesivo considerando che la sentenza avrebbe potuto produrre i suoi effetti anche nei suoi confronti. Le ragioni pratiche della chiamata in causa del terzo appaiono evidenti considerando lo scopo di chi propone la medesima chiamata, ossia quello di ottenere che la sentenza sia efficace anche contro il terzo al fine di prevenire le pretese o per l’immediata rivalsa in caso di soccombenza.

L’INTERVENTO COATTO PER ORDINE DEL GIUDICE

Risulta essere ordinato dal giudice se ritiene la causa comune al terzo e tale ordine è rivolto non direttamente al terzo, ma alle parti che con atto di citazione devo chiamare in giudizio il terzo.
In particolare, destinataria dell’ordine del giudice di far intervenire il terzo in giudizio è la parte che ha interesse alla prosecuzione del giudizio, per cui se la chiamata non avviene la causa stessa è cancellata dal ruolo ed il processo si estingue.
Le ragioni dell’intervento coatto sono le stesse del litisconsorzio, ossia l’opportunità della contemporanea partecipazione al processo di tutte le parti interessate dagli effetti della sentenza.
Tuttavia, mentre l’art. 102 c.p.c. considera la necessità del litisconsorzio che fonda l’ordine del giudice, nell’intervento coatto la necessità del litisconsorzio è l’effetto stesso dell’ordine del giudice, poiché tale ordine non sussisteva affatto prima ed il giudice, a sua discrezione, decide la necessità dell’intervento del terzo in corso di causa a pena l’estinzione del processo stesso.
Ciò implica, in ogni caso, una certa discrezionalità del giudice in ordine al principio della domanda, in quanto l’ordine del giudice deve fondarsi su ragioni di opportunità sulle quali si fonda l’ordine della chiamata del terzo.

Parti del Processo – Quali Sono

Ognuno dei soggetti del processo è non è definito dalla legge come «parte». Tale termine è adottato in numerosissime disposizioni e nel linguaggio comune la parola implica la contrapposizione tra soggetti nell’ambito di un comune contesto.
Nel linguaggio giuridico processuale il termine “parte” sta ad indicare il ruolo soggettivo nel processo e si riferisce a quei soggetti che, da un lato, «fanno» il processo (attore) e, dall’altro lato, ne subiscono gli effetti (convenuto).
A tale situazione processuale si aggiunge la posizione di parte «imparziale» che sono appunto i giudici e gli uffici collaterali.
Parti nel processo sono dunque quei soggetti che compiono atti del processo, ne subiscono gli effetti e sono perciò i destinatari dei provvedimenti del giudice.
Tale è la qualificazione minia di parte processuale, per cui se c’ed domanda c’è processo e dunque, parte.
Nella rappresentanza processuale è parte il rappresentato e nella sostituzione il sostituito, in quanto titolari del rapporto giuridico dedotto in giudizio.
In tali termini si parla di parte “sostanziale” di cui all’art. 2909 c.d., mentre la dottrina parla di parte “processuale” con riferimento ai soggetti che intervengono in giudizio.
La qualità di parte in senso processuale fa riferimento alle situazioni giuridiche dedotte in giudizio e, dunque, vale per ogni tipo di processo

LA CAPACITA’ DI STARE IN GIUDIZIO (O CAPACITA’ PROCESSUALE) E LA LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE

Se la parte si afferma come titolare del diritto dedotto in giudizio si dice parte legittimata ad agire.
Se la parte, invece, ha il potere di proporre domanda è legittimata ad processum, ossia ha la legittimazione processuale per esercitare i poteri e le facoltà che l’ordinamento le riconosce fino alla pronuncia di merito della causa.
Il termine legittimazione processuale non è utilizzato dal codice di rito, che invece si riferisce all’art. 75 c.pc. ai soggetti che possono stare in giudizio.
In effetti, il potere di stare in giudizio è riconosciuto ai soggetti che hanno la capacità processuale, la quale dipende dalla capacità di agire o del libero esercizio dei diritti, ex art. 75, comma 1, c.p.c.
Dunque, capacità processuale significa capacità di stare in giudizio,
L’art. 75 c.p.c. nei commi successivi e l’art. 77 c.p.c. prevedono soggetti che possono stare in giudizio in termini di legittimazione processuale.
I concetti di capacità processuale, riferita alla capacità di stare in giudizio, e la legittimazione processuale, come potere di stare in giudizio, dipendono l’uno dall’altro, per cui si parla di parte nel senso di soggetti che “possono” stare in giudizio, in quanto legittimati processuali.

LA RAPPRESENTANZA PROCESSUALE LEGALE, L’ASSISTENZA, L’AUTORIZZAZIONE E LA RAPPRESENTANZA PROCESSUALE DEGLI ENTI. IL CURATORE SPECIALE

L’espressione “possono stare in giudizio” di cui all’art. 75 e “stanno in giudizio” di cui all’art. 77 c.p.c. si riferiscono alla legittimazione processuale.
Il problema si pone in riferimento ai soggetti che non hanno la capacità di stare in giudizio, per incapacità d’agire ovvero per i falliti.
Il legislatore risolve il problema con la previsione dell’art. 75, comma 2, c.p.c. attraverso lo strumento della rappresentanza legale, per cui altro soggetto, il rappresentante, esercita i poteri processuali che la legge riconosce in capo all’incapace, detto rappresentato.
Il potere rappresentativo è riconosciuto in capo al soggetto che agisce ovvero attraverso la c.d. contemplatio domini, ossia agendo spendendo il nome del rappresentato.
Nel caso di rappresentanza “volontaria” il potere rappresentativo è conferito mediante procura ad un soggetto, mentre nel caso di rappresentanza “legale” esso è conferito dalla legge al soggetto che è legittimato processualmente a rappresentare l’altro.
Così dispone l’art. 75, comma 2, c.p.c. per cui chi non ha il libero esercizio dei propri diritti può stare in giudizio mediante il proprio rappresentante (se non rappresentati).
Inoltre, l’art. 75, commi 2, 3 e 4, prevede che lo stare in giudizio dei semincapaci e degli enti rinvia alle disposizioni previste per gli istituti di assistenza in tema di autorizzazione e della c.d. rappresentanza organica, in quanto i semincapaci stanno in giudizio mediante l’assistenza del curatore e talvolta previa autorizzazione del giudice tutelare o del tribunale.
La legittimazione processuale delle persone giuridiche è attribuita ai rispettivi rappresentanti legali a norma della legge o dello statuto, ex art. 75, comma 3, c.p.c. (rappresentanti legali pro-tempore) e talora si richiede la previa autorizzazione.
Gli enti che non sono riconosciuti come persone giuridiche, quali associazioni, comitati ed enti non riconosciuti, possono stare in giudizio ai sensi di cui all’art. 75, comma 4, c.p.c., a mezzo di soggetti che hanno i poteri di agire in campo sostanziale e, dunque, la legittimazione processuale.
Nel caso in cui manchi la persona dotata di tale rappresentanza o assistenza, l’art. 78 c.p.c. prevede la nomina urgente di un curatore speciale all’incapace, alla persona giuridica, all’associazione non riconosciuta con poteri di rappresentanza o di assistenza provvisoria ossia finché non subentri colui al quale spetta la rappresentanza o l’assistenza. Parimenti in caso di conflitto di interessi tra il rappresentante ed il rappresentato.

LA RAPPPRESENTANZA PROCESSUALE VOLONTARIA, CENNI SULLE DISFUNZIONI DEGLI STRUMENTI SOSTIUTIVI E/O INTEGRATIVI DELLA LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE

Si configura la rappresentanza processuale volontaria ai sensi dell’art. 77 c.p.c. in quanto ad un soggetto è conferito il potere di stare in giudizio da parte di un soggetto, ma non per incapacità del rappresentato, bensì per sua volontà.
Tale rappresentanza richiede uno specifico conferimento per iscritto a chi è già rappresentante in campo sostanziale e, più precisamente il potere rappresentativo è riconosciuto in capo a colui che ha la possibilità di intervenire sul piano sostanziale rispetto a tali diritti.
Così il procuratore generale ed il procuratore a determinati affari.
Tuttavia, tranne che per gli atti urgenti e le misure cautelari, per cui è sufficiente la qualità del rappresentante sostanziale, il potere rappresentativo processuale si presume conferito al procuratore generale di chi non ha la residenza o domicilio nella Repubblica e all’institore (art. 77, comma 2, c.p.c.).
Anche il rappresentante volontario dovrà effettuare la c.d. contemplatio domini, ossia esercitare il potere rappresentativo mediante la dichiarazione del rappresentante di agire in nome del rappresentato in quanto legittimato nel processo.
Se il soggetto che agisce o contro il quale si agisce è, però, privo di legittimazione processuale si verifica l’ipotesi del c.d. falsus procurator, il quale rende invalida la domanda da lui proposta ed il processo deve arrestarsi a seguito della pronuncia su tale difetto.
Se tale vizio non è rilevato ed è stata pronunciata sentenza, il giudicato non investirà il rappresentato, per cui nel processo non opera la negotiorum gestio né la ratifica del suo operato i cui effetti sono conseguibili ai sensi di cui all’art. 182 c.p.c.
Il difetto di autorizzazione è invece sanabile, mentre la mancata autorizzazione implica difetto di legittimazione processuale e nullità rilevabile d’ufficio.

I DIFENSORI E I CONSULENTI TECNICI DI PARTE

Il soggetto che “sta in giudizio”, ossia che compie atti del processo, è la parte o il suo rappresentante, i quali spesso si avvalgono della collaborazione dei “difensori” per stare in giudizio.
La legge ammette la figura del “difensore” nel processo in quanto:
a) gli atti del processo richiedono l’ausilio del tecnico del diritto, ossia del difensore;
b) il difensore assicura serenità e distacco necessaria per l’esame della controversia rispetto all’animosità delle parti.
Tali due diverse funzioni del difensore sono poste a fondamento della “difesa”, la quale:
a) all’art. 24, comma 2, Cost. è definita come “diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”;
b) all’art. 82 c.p.c. si riferisce al “patrocinio”, ossia all’attività degli ausiliari di parte che, a sua volta, si distinguono in:
b.1) coloro che la legge chiama “procuratori”, la cui attività è il “ministero di difensore”;
b.2) coloro che dalla legge sono chiamati “avvocati” la cui attività è quella di “assistenza di difensore”.
Per effetto della L. n. 27/ 1997 la qualifica professionale di procuratore legale (che esercita il ministero del difensore) e avvocato (che esercita l’assistenza del difensore) si sono formalmente unificate, in quanto è stato soppresso l’albo dei procuratori legali confluito nell’unica albo degli avvocati, al quale si affianca l’albo speciale degli avvocati abilitati al patrocinio innanzi alla Corte di Cassazione ed alle altre giurisdizioni superiori.
Quanto alle rispettive funzioni, la legge stabilisce che esse possono essere cumulate e, dunque, non vi è obbligo di cumulare la funzione del procuratore con quella dell’avvocato.
Infatti, l’attività propria di ciascuna figura professionale opera autonomamente, in quanto la necessità di avvalersi del difensore (c.d. onere del patrocinio) riguarda soltanto i casi in cui la legge prescrive il necessario ministero del difensore, come previsto nei giudizi innanzi ai Tribunali, alle Corti d’appello, alla Cassazione.
Tale ministero del difensore non è, invece, necessario nei giudizi innanzi al Giudice di Pace, per le cause di valore non eccedente un milione, pari ad €. 516,46 (art. 82, comma 1, c.p.c.), mentre per le cause di valore superiore la legge richiede il ministero del difensore.
Il ministero del difensore è prescritto anche per le cause di lavoro, salvo che abbiano valore inferiore a €.129,11 per cui la parte può stare personalmente in giudizio.
Il ministero può altresì svolgersi, come l’assistenza, senza limiti territoriali (art. 6 della L. n. 27/ 1997), ferma la necessità di elezione di domicilio nella circoscrizione territoriale del giudice innanzi al quale si svolge il giudizio (art. 82 del R.D. n. 37/1934).

IL MINISTERO DEL DIFENSORE E LA RAPPRESENTANZA TECNICA

Quanto all’attività dei difensori ed alla loro tecnica del “ministero”, va considerato che la legge chiama “ministero del difensore” il c.d. ius postulando, ossia il potere di compiere e di ricevere in nome della parte tutti gli atti del processo, esclusi soltanto quelli che implicano diritto di contesa, salvo che egli non abbia ricevuto espressamente il potere di tale diritto come da apposita riserva di parte (c.d. procura).
La parte, infatti, può esercitare personalmente i poteri soltanto a mezzo difensore, ossia avvalendosi della c.d. rappresentanza tecnica, in quanto la legge conferisce al difensore l’esercizio dei medesimi poteri conferiti alla parte, in quanto si realizza un subconferimento al difensore dell’esercizio dei poteri che la legge riconosce in capo alla parte e che alla stessa restano tali, in quanto ad essa riservati personalmente.
Il conferimento dei poteri al difensore avviene con apposito atto che può essere:
a) procura generale, alle liti, in quanto si riferisce genericamente ad una serie indeterminata di liti;
b) procura speciale alla lite, in quanto si riferisce ad una singola lite e deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata.
La procura speciale alla lite può essere proposta da persona individuabile mediante sottoscrizione leggibile ovvero dall’intestazione dell’atto che, in calce o a margine del documento, contiene gli elementi di cui all’art. 83, comma 3, c.p.c. tra cui l’autenticazione della sottoscrizione della parte mediante firma del difensore.
La procura speciale si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo, quando non è espressa una volontà diversa ex art. 83, comma 4, c.p.c.
L’attore può rilasciare la procura anche dopo la notificazione dell’atto di citazione, purché essa sussista prima della costituzione in giudizio ex art. 125, comma 2, c.p.c.
La PA, invece, è difesa in giudizio dall’Avvocatura dello Stato.
Infine, se il difensore agisce in giudizio senza alcuna procura, gli effetti dei suoi atti sono assunti in suo nome ed egli stesso assume la veste di parte con conseguenti responsabilità anche al fine delle spese di giudizio.
Attraverso lo “jus postulandi” si realizza la figura della c.d. rappresentanza tecnica che si contrappone alla c.d. rappresentanza processuale in senso proprio, ossia al fatto che anche il rappresentante legale o il rappresentante volontario debbono o possono stare in giudizio con il ministero del difensore.
Invero, il difensore non è semplicemente un “nuncius” della parte, in quanto esercita poteri discrezionali autonomi rispetto alla parte più ampi di quelli del rappresentante, ma a lui non è riconosciuta alcuna autonomia rispetto alla disposizione dei diritti sostanziali oggetto di causa.
Nell’attività processuale il difensore prende in considerazione i rapporti con la parte ai soli fini delle conseguenze processuali (procura, revoca, rinuncia) e tali rapporti vanno ricondotti alla figura di contratto di prestazione d’opera (c.d. contratto di patrocinio).
Infine, la legge n. 183/ 1993 ha attribuito al difensore munito di procura di cui all’art. 83 c.p.c. la facoltà di trasmissione di atti o provvedimento del processo o anche di altro processo ad altro difensore munito di procura a mezzo telecomunicazione (fax- email) e la copia fotostatica o l’email si ritiene conforme all’atto trasmesso.

L’ASSISTENZA DELL’AVVOCATO E DEL CONSULENTE TECNICO DI PARTE

L’assistenza del difensore, ossia il “ministero” rappresentato dall’avvocato, assume nel processo un ruoto tecnico che non riguarda la forma degli atti, ma il loro contenuto.
L’avvocato, infatti, esercita l’assistenza in propria persona, a favore della parte, e non in nome della parte.
Pertanto egli è difensore in prima persona, in quanto egli svolge attività difensiva volta a determinare il convincimento del giudice.
La stessa funzione è svolta dal consulente tecnico di parte di cui all’art. 87 c.p.c., per cui la legge consente alle parti di incaricare tale consulente nei casi in cui il giudice dove giudicare su casi che investono la risoluzione di problemi di natura tecnica, ossia non giuridica.

I DOVERI E LE RESPONSABILITA’ DELLE PARTI E DEI DIFENSORI

IL DOVERE DI LEALTA’ E PROBITA’ E IL DIVIETO DI ESPRESSIONI OFFENSIVE O SCONVENIENTI

Alle parti processuali la legge riconosce determinati oneri, tra cui il dovere di cui all’art. 88, comma 1, c.p.c., per cui le parti ed i loro difensori devono comportarsi in giudizio con lealtà e probità.
Secondo alcuni autori, la norma in parola si riferisce ad un comportamento corretto, invece secondo altri (MANDRIOLI) tale comportamento leale e probo è assunto dalla norma a contenuto di un preciso dovere che la legge incombe alle parti ed ai loro difensori, in quanto la violazione di tale dovere comporta sanzioni, quali, ad esempio, il rimborso delle spese processuali nonché il divieto di inserire negli scritti difensivi espressioni sconvenienti o offensive, per cui può essere disposta la cancellazione delle stesse ed alla persona offesa può essere assegnata una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno.
Si deve trattare di espressioni che, però, non riguardano l’oggetto della causa.

LA RESPONSABILITA’ PER LE SPESE
A) L’ONERE DI ANTICIPAZIONE
B) LA REGOLA DELLA SOCCOMBENZA E IL SUO FONDAMENTO GIURIDICO

La responsabilità per le spese del processo è posta a carico della parte soccombente al giudizio e a favore dell’altra.
In particolare, si afferma che le spese del processo sono considerate innanzitutto sotto il profilo della loro anticipazione, in quanto esse sono poste a carico di chi compie i singoli atti per cui anticipa le spese necessarie al processo, compreso il compenso dell’avvocato, il cui carico definitivo si trasferisce alla parte soccombente, a fine giudizio.
In secondo luogo, le spese del processo non possono gravare in ogni caso sulla parte che, a fine processo, risulta avere ragione, perché altrimenti subirebbe una decurtazione del proprio diritto.
Pertanto, la necessità di chi si rivolge al giudice per ottenere la tutela del proprio diritto non può rilevarsi a suo danno mediante il riconoscimento della responsabilità per le spese processuali, ma semmai essa va posta a carico della parte soccombente.
A sua volta, la parte soccombente può agire o resistere in giudizio in quanto non ha commesso alcun illecito e, dunque, può esercitare il proprio diritto di difesa.
L’art. 91 c.p.c. prevede che le spese processuali siano poste a carico del soccombente, ma senza fondamento risarcitorio, bensì nel senso di autoresponsabilità o deterrente di chi agisce in giudizio o resiste in giudizio.
Con la sentenza che conclude il processo si determinano le spese processuali, per cui il giudice “liquida” le stesse a favore della parte vittoriosa, compreso il compenso del difensore di quest’ultima.
Nel processo esecutivo, le spese della procedura sono a carico dell’esecutato e nel processo cautelare le spese sono a carico del richiedente il provvedimento del giudice se la richiesta è stata rigettata.

C) I “GIUSTI MOTIVI” ED ALTRE RAGIONI DI TEMPERAMENTO DELLA REGOLA DELLA SOCCOMBENZA.
D) LA RESPONSABILITA’ AGGRAVATA O PER C.D. TEMERARIETA’ DELLA LITE
E) FIGURE PARTICOLARI DI RESPONSABILITA’ PER LE SPESE
F) LA DISTRAZIONE DELLE SPESE

La soccombenza della parte alle spese processuali è suggerita da ragioni di opportunità e la legge attribuisce al giudice (art. 92, comma 1, c.p.c.) il potere di ridurre in sede di “liquidazione” la ripetizione delle spese ritenute eccessive o superflue nonché di sanzionare con il rimborso delle spese anche non ripetibili e indipendentemente dalla soccombenza, il comportamento in violazione dell’art. 88 c.p.c.
Inoltre, il giudice ai sensi dell’at. 92, comma 2, c.p.c. può “compensare” le spese di tutto o in parte del processo se sussistono “giusti motivi”, nel senso di soccombenza reciproca, riconducibili al comportamento delle parti nonché per ragioni obiettive di dubbiosità delle questioni prospettate dalle parti od anche per altre ragioni di solidarietà sociale.
In effetti, alla soccombenza può aggiungersi una vera e propria responsabilità aggravata a carico della parte che ha agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave di cui all’art. 96 c.p.c.
Pertanto, il risarcimento del danno presuppone il fatto il illecito, che può sussistere soltanto se le parti in giudizio hanno tenuto un comportamento tale da configurarsi come illecito.
La legge prende in considerazione la “mala fede” che rileva l’abuso del diritto di azione da cui scaturisce il comportamento illecito, posto a fondamento del risarcimento dei danno di cui all’art. 96, comma 1, c.p.c. e ad essa equipara la “colpa grave”, ossia la mancanza della pur minima avvedutezza e consapevolezza delle conseguenze dei propri atti, per cui la colpa grave viene equiparata al dolo.
Al soccombente, dunque, viene imputato tale comportamento per il fatto di aver agito o resistito in mala fede o con colpa grave, per cui si parla della c.d. temerarietà della lite, che, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., può fondare il diritto al risarcimento di tutti i danni subiti per essere stati costretti a partecipare ad un giudizio obiettivamente ingiustificato.
Nel processo esecutivo e cautelare, la responsabilità aggravata consiste nel fatto che la parte può avvalersi del titolo esecutivo o del provvedimento cautelare, che poi risultano infondati a seguito di accertamento sulla fondatezza del relativo diritto di cui si è richiesta l’esecuzione o la cautela.
In ogni caso di abuso del diritto, ossia nelle ipotesi in cui si agisce “senza la normale prudenza”, si configura una fattispecie di responsabilità che può implicare un illecito e fondare un risarcimento del danno.
L’art. 94 c.pc. considera la condanna alle spese in proprio di tutori, curatori, rappresentanti secondo principi della responsabilità aggravata, in quanto essi hanno agito senza la normale prudenza.
Il difensore della parte vittoriosa può ottenere la distrazione a suo favore della spese poste a carico della parte soccombente, eliminando il tramite della parte vittoriosa (c.d. distrazione delle spese a favore del procuratore antistatario).

Individuazione dell’Oggetto del Processo

L’attore con l’esercizio della sua azione determina l’oggetto sostanziale del processo, il singolo processo individuato nel suo oggetto sostanziale viene indicato con il temine causa e per determinare e individuare nei suoi confini una causa occorre individuare l’ambito dell’azione che l’ha introdotta. L’operazione di identificazione dell’azione esercitata in concreto è necessaria per l’applicazione della regola ne bis in idem che sta alla base del rilievo della cosa giudicata ( per verificare se un’azione coincide o meno con quella su cui è sceso il giudicato). Un’esigenza analoga si determina nel caso in cui la seconda azione viene proposta quando il processo introdotto dalla prima azione non è ancora terminato ma è pendente, in questo caso la regola ne bis in idem si traduce nel divieto al secondo giudice di pronunciarsi e deve dare atto della litispendenza, a seguito della eccezione di litispendenza il giudice dovrà risolvere e impostare un problema di identificazione delle due azioni on riguardo all’ambito e ai confini dell’azione già pendente. Un problema di identificazione di azioni può sorgere con riguardo alle regole del contraddittorio e del doppio grado di giurisdizione perché in ossequio a queste regole il legislatore vieta la proposizione di domande nuove sia nel corso del giudizio di primo grado sia in appello e per verificare se una domanda è nuova si dovrà ricorrere all’identificazione delle azioni.

Gli elementi soggettivi personae e i limito soggettivi del giudicato

Perché due azioni possano essere dette identiche devono essere identici tutti i loro elementi, se anche uno solo degli elementi è diverso non si parla più si identità delle azioni ma di connessione.

Gli elementi soggettivi dell’azione sono il soggetto passivo e il soggetto attivo, se c’è rappresentanza il riferimento è al rappresentato; se c’è sostituzione al sostituito. Rispetto a questi soggetti si determinano i limiti soggettivi del giudicato secondo l’art 2909 per il quale”l’accertamento del contenuto della sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”. Possono essere così evidenziati alcuni punti fermi:

in primo luogo la sentenza non può pregiudicare altri che furono estranei alla lite.

In secondo luogo se si tiene presente che con la parola “parti” non si intende solo i soggetti degli atti del processo (parti processuali) ma anche i soggetti del rapporto sostanziale affermato o dell’azione (parte in senso sostanziale) ed è proprio a queste che si riferisce l’art 2909;

In terzo luogo si deve prendere atto che l’ordinamento offre molti esempi di casi di astensione degli effetti del giudicato nei confronti di soggetti che non furono parti nel processo. Questi sono in primo luogo gli eredi e aventi causa, oppure si ha il caso di più soggetti legittimati all’esercizio di un’azione che può essere esercitata una sola volta, oppure il caso in cui il diritti dei soggetti si trova in un rapporto di pregiudizialità – dipendenza, o i casi di estensione anormale solo nei casi previsti dalla legge. Ma al di fuori di questi casi il giudicato non si estende ai terzi.

Gli elementi soggettivi dell’azione. Il petitum e la causa petendi

Gli elementi oggettivi dell’azione sono 2: l’oggetto e il titolo.

L’oggetto o petitum è ciò che si chiede con la domanda e poiché la domanda è rivolta a due soggetti (giudice e l’altra parte) il petitum assumerà due aspetti diversi. In via immediata si rivolge al giudice al quale si chiede un provvedimento (petitum immediato): la condanna, il mero accertamento ecc… In via mediata la domanda si volge alla controparte a cui si chiede un bene della vita (petitum mediato). Anche questo elemento deve coincidere perché si abbia identità di azioni la quale postula sotto questo profilo l’identità tra petitum immediato e mediato. Il bene della vita presuppone il riferimento più o meno esplicito ad un diritto sostanziale che qualifica come petitum il bene della vita richiesto e viene in rilievo, se considerato per se stesso come il titolo o causa petendi. Causa petendi vuol dire ragione del domandare cioè la ragione obbiettiva su cui si fonda la domanda, il diritto sostanziale affermato in forza del quale viene chiesto il petitum.

Petitum mediato e causa petendi sono dunque le due angolazioni del diritto sostanziale affermato, che è l’oggetto del processo. Il diritto affermato nel quale convergono viene in rilievo come entità concreta se si ricorda che ciò che individua il diritto come volontà concreta di legge non è la norma di legge ma i fatti costitutivi del diritto appare evidente come la causa petendi si risolva nel riferimento concreto a quel fatto o a quei fatti che sono affermati e allegati come costitutivi.

Il fatto costitutivo del diritto affermato non è sempre sufficiente per individuare la causa petendi, lo è sicuramente nei casi in cui la tutela giurisdizionale prescinde dalla violazione e si dice che l’interesse ad agire è in re ipsa (diritto potestativo), ma in altri casi l’individuazione del fatto costitutivo dovrà essere integrata con l’individuazione del fatto lesivo affermato poiché è questo che normalmente concreta l’interesse ad agire che pure costituisce un elemento della causa petendi (passiva), dunque ciò che individua la causa petendi è il fatto costitutivo del diritto talvolta in correlazione con il fatto lesivo di quel diritto.

Non sempre il fenomeno del venire in essere di un diritto si verifica secondo lo schema di un fatto che è costitutivo di un diritto poiché qualche volta può fatti possono cospirare nel costituire un solo diritto e poiché la causa petendi consiste nel diritto sostanziale affermato può accadere che il riferimento a fatti diversi non basti ad implicare la diversità della causa petendi e quindi dell’azione, dunque bisogna verificare se il fatto diverso fonda un diritto diverso oppure lo stesso diritto.

Passando in rassegna i diversi tipi di diritto sostanziale va constatato che la categoria dei diritti rispetto ai quali il fenomeno si verifica è quella dei diritti relativi ed in particolare dei diritti di obbligazione ad una prestazione generica poiché ciascuno di questi diritti nasce con il proprio rispettivo fatto costitutivo che è diverso per ogni singolo diritto sicché è solo in questo fatto che si ravvisa la causa petendi. In sostanza nel campo dei diritti relativi poiché il diritto può venire in essere più di una volta tra gli stessi soggetti ad ogni fatto costitutivo corrisponde un diverso diritto e quindi una diversa causa petendi ed una diversa azione. In questi diritti la portata individuatrice dell’azione è polarizzata nella causa petendi che almeno tendenzialmente implica il petitum.

Rispetto ai diritti assoluti (esclusi i diritti di garanzia) la situazione è diversa perché questi diritti sono sempre identici qualunque sia il fatto che ne costituisce la genesi.

Anche nei diritti alla modificazione giuridica diversi fatti genetici possono fondare lo stesso diritto e la stessa azione.

Connessione, cumulo e concorso di azioni

Il fenomeno della comunanza parziale di elementi tra due o più azioni se non interessa l’ordinamento sotto il profilo della litispendenza o del giudicato lo interessa sotto il profilo della connessione cioè quello dell’eventuale opportunità che le due o più cause siano esaminate e trattate insieme. La connessione può dipendere sia dalla comunanza di entrambi gli elementi soggettivi e sia della comunanza di almeno uno degli elemento oggettivi.

Si ha connessione soggettiva quando due o più cause hanno in comune entrambi i soggetti. Si può rendere possibile la trattazione congiunta col cumulo oggettivo conseguente alla connessione soggettiva e che consiste in sostanza nella proposizione di più azioni diverse dalla stessa parte e contro la stessa parte nello stesso processo (più domande anche non connesse).

La connessione oggettiva invece può dare luogo alla possibilità di cumulo soggettivo cioè alla possibilità che in relazione e a causa della connessione di uno o di tutti gli elementi oggettivi si sovrappongono nello stesso processo anche gli elementi soggettivi (che sono diversi). Questo fenomeno di più parti nello stesso processo si chiama litisconsorzio e si risolve in una facoltà per chi agisce (litisconsorzio facoltativo art 103 cpc).

Figure particolari di connessione sono oltre alla riconversione anche l’accessorietà, la pregiudizialità e la garanzia.

La comunanza di alcuni elementi di 2 o più azioni può far si che la conseguente connessione assuma rilievo sotto il profilo dell’eventualità che l’esercizio di un’azione consegua il risultato pratico anche di un’altra azione con la conseguenza che questa diviene obiettivamente inutile. Questo fenomeno è il concorso di azioni. Si può avere concorso di azioni per connessione di petitum e di causa petendi quando lo stesso diritto potestativo necessario viene attribuito a soggetti diversi.

Inoltre si può avere un concorso di azioni per connessione oggettiva rispetto al petitum quando all’identità dei soggetti e del petitum corrispondano varie cause petendi.

D’altra parte può accadere che azioni concorrenti sorgano dagli stessi fatti in quanto rientranti in diverse previsioni normative.

Nel caso che due o più azioni concorrenti vengano proposte nello stesso processo, si verifica il fenomeno del cumulo alternativo di azioni o di domande. Al quale fenomeno si contrappone quello del cumulo condizionale che si verifica quando due o più domande vengono proposte nello stesso processo alla condizione che una di queste sia previamente accolta (cumulo successivo o condizionale in senso stretto) e previamente respinta (cumulo eventuale o subordinato). In questi casi la pronuncia sull’azione condizionata non postula il passaggio in giudicato della pronuncia sull’azione condizionante, ma può avvenire con la medesima sentenza.

Dovere Decisorio del Giudice

A fronte del diritto di azione sta il dovere decisorio del giudice cioè il dovere di compiere tutti quegli atti che coordinandosi a vicenda conducono alla pronuncia del provvedimento sul merito, ossia alla decisione. Il dovere decisorio è fondato sull’art. 112 cpc che stabilisce che “ il giudice deve decidere su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa, Corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Possiamo dire, dunque che l’ambito della dovere decisorio del giudice è determinato dall’ambito della domanda a cominciare dalla sua attitudine ad ottenere la pronuncia sul merito. Il contenuto del dovere decisorio del giudice è il giudizio che è la sintesi di due distinti momenti logici:

L’enunciazione in astratto dell’attuale portata della norma, giudizio di diritto

Riscontro che, nel caso concreto, si sono verificati i fatti costitutivi e gli eventuali fatti lesivi, Giudizio di fatto.

La sintesi di questi due momenti è il sillogisma del giudice o giudizio nel quale la premessa maggiore è il giudizio di diritto in cui il giudice opera come giurista mentre la premessa minore è costituita dal giudizio sul fatto in cui il giudice opera come storico. Naturalmente il sillogisma non è altro che uno schema di una serie di operazioni mentali più complesse. Bisognerà tener presente che innanzi tutto ciascuna delle due premesse costituisce a sua volta il risultato di un giudizio, almeno in senso logico. I due giudizi non possono compiersi indipendentemente l’uno dall’altro perché il giudizio di diritto presuppone un primo orientamento che deve essere dato dai fatti, mentre il giudizio di fatto presuppone la messa a fuoco di elementi rilevanti che a sua volta presuppone il riferimento alla portata della norma.

Se il giudice non decide su tutta la domanda può verificarsi una totale o parziale omissione di pronuncia mentre se eccede i limiti della domanda può verificarsi il vizio di ultrapetizione quindi svolgerebbe un’attività non solo non dovuta ma non richiesta.

La correlazione tra il dovere decisorio e la domanda della parte è espressione del principio di disponibilità della tutela giurisdizionale che ispira l’art 2097 il quale enuncia che la tutela giurisdizionale è presentata “su domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero o d’ufficio”. La regola della disponibilità della tutela giurisdizionale trova immediata correlazione in un’altra regola: il principio della domanda che stabilisce che chi vuol far valere un giudizio deve proporre la domanda al giudice competente, colui che propone la domanda acquista un diritto al processo e al conseguente potere decisorio del giudice in quanto il dovere viene in essere solo se c’è la domanda ed è la domanda che vincola il giudice al dovere di giudicare.

Il giudice è vincolato, inoltre, a pronunciarsi su tutta l’estensione della domanda, in questo senso si parla di disponibilità dell’oggetto del processo in capo a colui che propone la domanda. In particolare tale vincolo si manifesta con riguardo al tipo di azione esercitata (di mero accertamento, di condanna, costitutiva), sia nell’ambito del giudizio (di diritto e di fatto) ma è proprio nei fatti costitutivi e solo nei loro riguardi che si manifesta l’esclusiva dell’attore nella determinazione del dovere del giudice e quindi dell’oggetto del processo.

Ma poiché nel momento del giudizio che riguarda le norme, pur dovendo applicare le norme del diritto (art 113 cpc) è libero di applicare le norme che ritiene meglio applicabili nel caso concreto, fatto salvo il dubbio di costituzionalità o di interpretazione del diritto comunitario, ne consegue che la disponibilità dell’oggetto del processo si concentra e si concreta in quella parte di domanda che contiene l’affermazione dei fatti costitutivi e degli eventuali fatti lesivi. Il giudice deve giudicare su tutti i fatti che solo allegati o affermati nella domanda e solo su quelli ma a quei fatti può applicare le norme di diritto che ritiene più adeguate.

La pronuncia secondo equità

La pronuncia secondo equità costituisce un’eccezione di cui alla regola dell’art 113 cpc, secondo il quale il giudice nel giudicare deve seguire le norme di diritto. In determinati casi particolari può risultare più opportuno che il giudice lasci da parte la regola generale e astratta per cercare, formulare e applicare una regola particolare per il caso concreto che elabora nella propria coscienza (cd equità sostitutiva). In questi casi il giudice opera come legislatore e giudice insieme. Ma per l’anomalia della deroga alla portata generale delle norme, l’equità sostitutiva non può essere imposta alle parti. Nel nostro ordinamento il giudizio di equità quando è imposto o necessario riguarda solo il giudizio innanzi al giudice delle cause minori o giudice di pace. La legge prevede anche il ricorso anche all’equità (integrativa) per integrare la portata di determinate norme, questo fenomeno è diverso perché consiste in un giudizio fondato sulla norma che rimanda all’equità solo per specificare elementi non configurabili in astratto.

Il principio della disponibilità delle prove

Ci si domanda se il giudice oltre ad essere vincolato dalla disponibilità dell’oggetto del processo con riguardo ai fatti affermati o allegati dalle parti, sia vincolato anche sul modo di giudicare su quei fatti cioè di potersi avvalere soltanto degli strumenti di convincimento ( prove ) che gli sono forniti dalle parti, oppure possa acquisire prove di sua iniziativa . A questo risponde l’art 115 cpc che enuncia anche la sussistenza di tale vincolo ma “ salvi i casi previsti dalla legge”il che significa che la disponibilità in capo alle parti si estende anche alle prove (principio della disponibilità delle prove) ma solo in modo limitato cioè nel senso che la scelta del nostro ordinamento tra un sistema di tipo inquisitorio, caratterizzato dal fatto che il giudice ha facoltà di iniziativa nell’avvalersi dei mezzi di prova, o un sistema dispositivo, si è ispirata ad un sistema di dispositivo attenuato che pur vincolando il giudice alle offerte di prova delle parti contempla casi previsti dalla legge che costituiscono eccezioni importanti.

I casi previsti dalla legge riguardano:

I fatti notori: il giudice può porre a fondamento della sua decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (art 115 cpc);

La richiesta d’ufficio di informazioni alla P.A. (art 213 cpc);

Il potere di disporre un interrogatorio non formale delle parti (art 117 cpc)

Il sistema dispositivo viene sostituito da elementi inquisitori nel processo del lavoro in cui è previsto che il giudice possa disporre d’ufficio l’ammissione di ogni mezzo di prova e nel processo davanti al giudice monocratico il quale può disporre d’ufficio prove testimoniali.

Per quanto riguarda la valutazione delle prove l’art 116 cpc enuncia il principio della libera valutazione da parte del giudice secondo il suo prudente apprezzamento.

Impulso si parte e impulso d’ufficio. La funzione del PM nell’ambito del sistema di impulso di parte

Con riguardo all’iniziativa nella richiesta di tutela giurisdizionale occorre tenere presente la portata determinate della disponibilità di tale tutela e dell’oggetto del processo come conseguenza di diritti disponibili, in questo caso il sistema ad impulso di parte non ha alternativa se non con riguardo a particolari eccezioni. Se però di tratta di diritti indisponibili perché coordinati con interessi pubblici il mantenimento della tecnica ad impulso di parte postula la configurazione di un soggetto che eserciti l’impulso di parte nell’interesse pubblico. Tale soggetto è il Pubblico Ministero che, dotato di poteri analoghi a quelli delle parti, li esercita nell’interesse pubblico. Con questa scelta il legislatore ha conseguito il fine di sottrarre ai privati l’esclusiva nel far valere diritti indisponibili senza rinnegare la scelta di fondo di un sistema imperniato sull’impulso di parte e sul sistema dispositivo. Così il PM se dal punto di vista della funzione può essere ricondotto ad un processo ad impulso d’ufficio, dal punto di vista tecnico si inquadra interamente negli schemi del processo ad impulso di parte.

Il principio del contraddittorio e il diritto costituzionale alla difesa

L’art. 101 del cpc sotto la rubrica “principio del contraddittorio” enuncia che il giudice non può pronunciare su alcuna domanda se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata e non è comparsa. Quest’ultima o soggetto passivo della domanda è colui che subirà gli effetti della pronuncia richiesta e che per questo motivo deve essere “regolarmente citato”, cioè messo in condizione di comparire davanti al giudice , se lo vuole, e di contrastare la domanda rivolta contro di lui. Da questa regola si risale al principio del contraddittorio al quale è intitolata la norma che si riconduce a sua volta al principio di uguaglianza delle parti secondo cui chi subirà gli effetti del processo deve poter svolgere in quel processo un ruolo attivo. A ciò è finalizzato il diritto costituzionale alla difesa cioè il diritto del soggetto passivo della domanda di essere posto concretamente in condizione di difendersi attraverso la regolarità della citazione il cui scopo si rivela già conseguito se il soggetto passivo della domanda compare davanti al giudice. La comparizione del soggetto passivo davanti al giudice è considerata come un sintomo del fatto che il soggetto sia posto in condizione di conoscere le modalità della sua chiamata innanzi al giudice, la sua comparizione è dunque un requisito sostitutivo rispetto alla regolare citazione sicchè la congiunzione “e” dovrebbe essere riferita solo all’ipotesi dell’irregolarità della citazione e come alternativa alla regolarità stessa. La comparizione del soggetto passivo della domanda toglie rilievo ad ogni eventuale vizio della citazione. In sintesi audiatur altera pars, ciò però non impedisce che vi siano eccezioni purchè il legislatore faccia salvo il principio dell’uguaglianza delle parti e della possibilità di difendersi: es. domanda proposta con ricorso o procedimento ingiuntivo nei quali la legge consente addirittura una pronuncia inaudita altera parte.

Azione Legale – La Domanda e Potere di Proporla

l potere di proporre la domanda, il cui esercizio da avvio al processo spetta per l’art. 24 co. 1 della Cost. a tutti salve solo le disposizioni in tema di capacità.

L’atto col quale si propone la domanda può assumere le forme dell’atto di citazione oppure quelle del ricorso. Perché la domanda sia idonea ad avviare un processo indipendentemente dalla sua attitudine a pervenire alla pronuncia sul merito basta che la domanda possa obbiettivamente considerarsi tale.

Perché il processo possa però procedere alla pronuncia sul merito la domanda deve avere dei requisiti intrinseci che vengono definiti condizioni dell’azione dalla cui sussistenza dipende l’accoglibilità della domanda nell’ipotesi che sia vero quanto in essa esposta. Questi requisiti condizionano l’azione nel senso che da essi dipende il diritto ad ottenere una pronuncia sul merito. Quando la domanda possiede quei requisiti oltre a costituire l’esercizio del potere di proporre la domanda costituisce al tempo stesso il primo atto di esercizio dell’azione intesa come quella situazione giuridica che ricomprende in se l’intera posizione giuridica del soggetto che chiede la tutela giurisdizionale con riferimento all’intero processo.

Le singole condizioni dell’azione

Le singole condizioni dell’azione sono

La possibilità giuridica: deve esistere una norma che contempli in astratto il diritto che si vuole fare valere

L’interesse ad agire di cui all’art. 100 cpc che consiste nell’affermare che si sono verificati in concreto uno o più fatti costitutivi previsti in astratto da una norma e dei fatti lesivi di un diritto, ma lesione soltanto affermata nella domanda mentre la verifica effettiva costituisce già il risultato del processo di cognizione. Nel caso dell’accertamento mero l’affermazione del fato lesivo sarà sostituita dall’affermazione della contestazione o del vanto.

La legittimazione ad agire consiste nell’affermazione della titolarità attiva in capo a chi pone la domanda e passiva in capo a colui contro cui è proposta la domanda. Si possono far valere solo quei diritti che si affermano come diritti propri salvi i casi in cui la legge espressamente di far valere diritti altrui, casi definiti di legittimazione straordinaria o sostituzione processuale (es. azione surrogatoria del creditore). Non mancano casi, poi nei quali la scelta del legislatore è determinata da esigenze di natura sociale come la legittimazione a far valere interessi collettivi o diffusi. La legittimazione ad agire coincide con la titolarità dell’azione.

L’azione di cognizione è diritto verso il giudice ad un provvedimento sul merito. L’azione è un diritto astratto ma solo parzialmente astratto in quanto postula un aggancio al diritto sostanziale: l’aggancio consiste nell’affermazione nel senso che l’esistenza dell’azione è condizionata dal fatto che il diritto sostanziale sia affermato nella domanda come esistente e quindi meritevole di tutela.

Le azioni di cognizione

Se l’azione è diritto alla tutela giurisdizionale, è chiaro che esistono tanti tipi di giurisdizione quanti sono i tipi di tutela giurisdizionale perciò si parla di azione di cognizione, azione esecutiva e azione cautelare.

L’azione di cognizione si distingue dall’azione di mero accertamento che introduce un processo di cognizione destinato a chiudersi con una sentenza di mero accertamento e azione costitutiva che introduce un processo di cognizione destinato a chiudersi con una sentenza costitutiva.

L’azione di mero accertamento prevede che l’interesse ad agire sia determinato dalla contestazione che deve assumere un grado di consistenza e serietà. Nel caso si tratti di contestazione di tipo affermativo si parla di mero accertamento negativo, in contrapposizione di mero accertamento positivo.

L’azione di condanna. La cognizione si chiama condanna quando si svolge in funzione ed in preparazione dell’esecuzione forzata, l’azione è basata sulla violazione e perciò postula un quid plus rispetto all’accertamento mero, dunque se la domanda contiene l’affermazione di un diritto violato e di un conseguente bisogno di restaurazione sul piano materiale, l’azione è di condanna.

L’ordinamento contempla alcune figure di azioni di condanna che prestano elementi di specialità, o condanne speciali:

La condanna generica prevista dall’ art. 278 cpc che prevede la possibilità di scindere la pronuncia sul “se” si una certa prestazione, dalla pronuncia sul “quantum” lasciandola ad un’altra fase del processo oppure ad un processo successivo. Si tratta di una figura speciale perché la sentenza che si può ottenere se da un lato è una condanna perche consegue ad un’esigenza di tutela determinata da una violazione, dall’altro è una condanna che non potrà contemplare una esecuzione forzata fino a quando non sarà integrata con la condanna riguardante il quantum.

Condanna condizionale sia nel senso che il giudice fa dipendere l’esecuzione dal verificarsi di una condizione ma in questo caso la condizione investe solo la condanna e non l’azione, sia nel senso che la condizione appartenga al diritto sostanziale accertato (es. il diritto di tizio al pagamento di 100 da parte di caio se si verificherà una certa condizione)in quest’ultimo caso definibile come condanna a prestazione condizionata la sentenza potrà essere di condanna solo dopo l’avveramento della condizione mentre prima, non essendoci una violazione, sarà di accertamento mero.

Condanna in futuro. Si tratta di azioni volte ad ottenere una condanna attuale ad una prestazione soggetta ad un termine e perciò eseguibile solo dopo il decorso del termine. Anche queste azioni non possono che essere riconosciute di accertamento mero poiché prima della scadenza non può esserci violazione. Vi sono tuttavia dei casi in cui la legge stessa eccezionalmente configura delle autentiche condanne in futuro: es. convalida dello sfratto per finita locazione prima della scadenza e le condanne a prestazioni alimentari o mantenimento.

Accertamento con prevalente funzione esecutiva. Sono caratterizzati dalla sommarietà della cognizione per ottenere più rapidamente l’esecutività. In taluni casi la cognizione è sommaria perché superficiale. Es. decreto ingiuntivo in cui si può avere una pronunci senza neppure sentire l’altra parte. In altri casi la cognizione è sommaria perché incompleta (es. condanne con riserva) che sono provvedimenti a contenuto di condanna pronunciati nonostante che l’esame di alcune questioni sia stato accantonato per essere compiuto in seguito (ordinanza di rilascio)

L’azione costitutiva che oltre ad accertare il diritto ad una modificazione giuridica contemporaneamente realizza il quid pluris rispetto all’accertamento ossia la modificazione giuridica. La situazione è paragonabile a quanto accade nella condanna in cui si è pure visto che l’accertamento non basta per attuare la tutela ma costituisce la premessa logica e giuridica per l’ulteriore attività tutelatrice che è l’esecuzione forzata. Ma la differenza tra la sentenza di condanna e la sentenza costitutiva sta nel fatto che mentre nella condanna il giudice non può che rimandare l’attuazione effettiva del diritto ad un’attività tutelatrice ulteriore da compiersi dall’organo esecutivo, nella sentenza costitutiva l’ulteriore attuazione del diritto accertato può compiersi subito e direttamente dal giudice dal momento che per attuarla bisogna operare solo nel campo degli effetti giuridici.

L’azione preventiva non sembra configurabile un tipo di azione preventiva autonomo.

A questo punto possiamo dire che l’accertamento è l’elemento comune a tutti i tipi di azione.

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