Le forme di autotutela privata nel caso di inadempimento delle obbligazioni di fare infungibili
AUTOTUTELA
Con il termine autotutela si fa riferimento alla possibilità di esperire senza l’intervento dell’Autorità giudiziaria, rimedi e mezzi atti a proteggere la propria sfera giuridica.
Tale potestà, ordinariamente consentita ai soggetti dotati di pubblici poteri, è invece in linea generale preclusa ai soggetti privati, per i quali vige il divieto di farsi giustizia da sé ai sensi degli artt. 101 e 102 Cost., dell’art. 2907 c.c. e degli artt. 392 e 393 c.p.
Sicché, se taluno ritiene di essere stato leso dalla condotta illecita altrui, deve per regola generale rivolgersi all’Autorità giudiziaria al fine di ricevere protezione.
LE FORME DI AUTOTUTELA PRIVATA AMMESSE DALL’ORDINAMENTO
Il divieto di autotutela privata non è, tuttavia, inderogabile, essendo previste dall’ordinamento alcune ipotesi, tassative e insuscettibili di interpretazione analogica, che consentono eccezionalmente al privato la facoltà di attivarsi per proteggere la propria sfera giuridica minacciata o lesa dal comportamento altrui.
Nello specifico, i casi di autotutela privata consentiti dalla legge, possono distinguersi in unilaterali e convenzionalmente pattuiti.
Con le forme di autotutela convenzionale, le parti nell’esercizio della loro autonomia privata, possono convenire di istituire meccanismi predeterminati di protezione di determinate posizioni soggettive, senza che si palesi indispensabile il ricorso all’Autorità giudiziaria.
Tale distinzione, tuttavia, non è pacificamente condivisa, essendovi un orientamento dottrinario che definisce l’autotutela come l’autodifesa extraprocessuale delle situazioni soggettive private per atto unilaterale della parte interessata.
Pur essendo suggestiva tale linea di pensiero, la stessa non è comunque esente da critiche, non potendosi revocare in dubbio che il comportamento di chi esercita l’autotutela, pur essendo nella sua fase esecutiva sempre unilaterale, in molti casi sorge dal consenso delle parti che, nell’esercizio della loro autonomia privata e nei limiti del lecitamente consentito, si accordano per il riconoscimento reciproco o in favore di una di esse, di poteri di autotutela che senza quel preventivo consenso non potrebbero esercitarsi.
Nonostante l’autotutela, come sopra accennato, dovrebbe costituire un’eccezione, parte della dottrina riconosce alla stessa carattere generale, definendola come il potere generale di difendere i propri interessi legalmente riconosciuti e protetti, mantenendo inalterata la situazione esistente ovvero ripristinando quella anteriore alla costituzione di un determinato rapporto obbligatorio.
Le plurime definizioni e classificazioni offerte dalla dottrina al fenomeno dell’autotutela paiono, comunque, tutte convergere sulla considerazione che la stessa è espressione dei princìpi di correttezza e di buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio o nell’esecuzione del contratto, in quanto teleologicamente ispirata ad evitare inaccettabili ingiustizie e iniquità determinate dal dovere di esecuzione a fronte di un atteggiamento inadempiente della controparte, in certi casi addirittura strumentale e programmato.
Intesa in tal senso, l’autotutela entra quindi in gioco ogni qual volta l’interesse di un soggetto, in uno specifico rapporto giuridico, venga pregiudicato, fornendo la massima protezione alla situazione giuridica dell’interessato ed evitare il verificarsi del danno.
Non a caso, l’art. 2044 c.c. e così pure l’art. 52 c.p. consentono a chiunque non sia obiettivamente in grado di ricorrere al giudice, qualora compulsato dall’altrui comportamento lesivo o pericoloso, di farsi ragione da sé, sia pure danneggiando, trasformando o mutando la destinazione di una cosa ovvero usando violenza o minaccia ad una persona.
Né sembrerebbe incompatibile tale reazione difensiva nell’ambito dei rapporti obbligatori, laddove possa ritenersi che l’art. 52 c.p. integri e renda effettivamente più esplicito il contenuto dell’art. 2044 c.c., estendendone l’applicazione oltre che ai c.d. diritti assoluti, anche ai diritti reali e ai diritti di credito.
Del resto, il divieto di un potere generale di autotutela viene generalmente fondato proprio sul disposto dei citati artt. 392 e 393 c.p. che, tuttavia, disciplinando solo le ipotesi di violenza su persone o su cose, impedirebbero esclusivamente di porre in essere comportamenti che danno luogo ad una vera e propria realizzazione violenta della pretesa creditoria.
Da tanto consegue, che le norme in esame, non puniscono sic et simpliciter l’esercizio delle proprie ragioni, ma sanzionano l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante la violenza sulle cose ovvero la violenza o la minaccia sulle persone, presupposti che difettano allorquando la cosa non venga né danneggiata né trasformata, come avviene nella ritenzione.
In considerazione di quanto sopra, deve dunque ritenersi che gli artt. 392 e 393 c.p. non introducono un divieto generale dell’autotutela privata, ma anzi, per il principio secondo cui tutto ciò che non è vietato è permesso, riconoscono tale autotutela fuori dai casi specificamente contemplati.
A conferma del dedotto e della volontà del Legislatore di favorire la possibilità di autotutelarsi, valga il contenuto della Relazione al Codice Civile, nella quale tra l’altro si legge che “tutti i diritti soggettivi (…) richiedono infatti una protezione che sarà più o meno intensa, più o meno affidata o condizionata all’iniziativa delle parti interessate (…) senza della quale la loro efficacia o il loro vigor pratico si dissolverebbe o rimarrebbe esposto a offese senza rimedio”.
Dal tenore di tale passo si evince, quindi, che la protezione dei diritti non è limitata solo all’iniziativa giudiziaria, atteso che, la locuzione “è affidata” evoca il concetto della difesa del diritto rimessa esclusivamente e in via diretta all’interessato, che del resto tale potere può esercitare nelle varie ipotesi legali tipiche contenute nel codice civile, quali, tra le altre, la clausola solve et repete, il pactum de non petendo, il recesso, le caparre, le decadenze contrattuali, la clausola risolutiva, la clausola penale e l’arbitrato.
L’unico presupposto del quale, tuttavia, occorre tenere conto per l’esercizio dell’autotutela privata, è che l’interesse oggetto di autotutela deve essere espressamente previsto e protetto dall’Ordinamento, con ciò escludendo la sua configurabilità rispetto alle obbligazioni naturali, in quanto gli interessi da queste protetti non sono originariamente giuridici e non consentono, quindi, l’esperimento di alcuna azione giudiziale.
L’AUTOTUTELA NEL CASO DI INADEMPIMENTO DELLE OBBLIGAZIONI DI FARE INFUNGIBILI
Posto che l’Ordinamento consente al privato il potere di attivarsi per la tutela della propria sfera giuridica minacciata dalla condotta illecita altrui, occorre scrutinare come in concreto tale potere può attuarsi con specifico riguardo al caso di inadempimento di obbligazioni infungibili.
L’obbligazione si dice infungibile quando, avuto riguardo all’interesse del creditore, questa non può che essere eseguita dal debitore, ad esempio perché si tratta di una prestazione intellettuale o artistica.
Tali obbligazioni si connotano per essere insuscettibili di coercizione diretta, in virtù del principio nemo ad factum precisum cogi potest.
Non a caso, il codice di rito, solo di recente ha introdotto con l’art. 614-bis c.p.c., uno strumento di coercizione indiretta al fine di rendere effettivo l’adempimento di obblighi di fare infungibili o di non fare, mediante una generalizzata misura a contenuto pecuniario sul modello delle astreintes francesi.
Come in via giudiziale non è possibile ottenere una tutela in forma specifica della prestazione infungibile rimasta inadempiuta, allo stesso modo le iniziative di autotutela privata di cui il creditore può disporre, si limitano a misure volte a disincentivare il debitore a rimanere inadempiente, mediante la “minaccia” di una conseguenza pecuniaria più grave rispetto all’inadempimento.
In particolare, gli strumenti di autotutela che nello specifico si rivelano più idonei ad incentivare il debitore all’adempimento della prestazione, sono essenzialmente di natura negoziale, come la clausola penale e la clausola risolutiva espressa.
La forma più grave di inadempimento della prestazione è, infatti, il rifiuto ingiustificato del debitore a rendere la prestazione, che in quanto consistente in un opus intuitu personae, legittima il creditore ad attivarsi per la risoluzione del contratto senza la necessità di azione giudiziale, ma con la semplice comunicazione al debitore dell’intenzione di avvalersi della clausola risolutiva espressa, qualora convenuta nella scrittura, così come prevede l’art. 1456 c.c.
Il creditore avrà altresì il diritto ad agire per il risarcimento del danno, che può essere già prestabilito dalle parti, mediante apposita clausola penale.
La clausola penale, infatti, disciplinata dall’art. 1382 ss. c.c., è la prestazione che un contraente si obbliga ad eseguire a favore dell’altro in caso di inadempimento o ritardo nell’adempimento e svolge la funzione di liquidare, in modo preventivo e forfettario, il danno che il creditore potrà subire per la mancata o tardiva esecuzione della prestazione dovuta.Si discute in dottrina se la clausola in parola, di cui è pure pacifica l’autonoma identità come obbligazione, sia un patto accessorio al contratto fonte dell’obbligazione con la funzione di incoraggiare l’adempimento e di predeterminare, in difetto, l’ammontare dei danni, oppure un negozio autonomo in funzione meramente sanzionatoria.
La penale, in verità, oltre a stimolare il debitore ad adempiere quando il suo ammontare è superiore al danno prevedibile, ha anche la funzione di limitare il risarcimento a carico del debitore e di evitare controversie sulla esistenza e misura del danno.
L’inserimento della clausola penale nel contratto ha, infatti, come effetti principali l’irrilevanza della prova del danno subito dal creditore, sollevato dalla relativa prova e la limitazione del risarcimento dovuto dal debitore.
La penale può essere prevista per l’inadempimento o il ritardo nell’adempimento dell’intero contratto o di una o più obbligazioni specificamente indicate, o per entrambe le ipotesi, che devono essere imputabili al debitore, trattandosi, nell’ipotesi contraria di una clausola atipica di assunzione del rischio, in quanto presuppone la responsabilità per inadempimento del debitore anche per cause a lui non imputabili.
Nel caso di penale prevista per il mero ritardo nell’adempimento, il creditore decade dal diritto di ottenerla, se accetta la prestazione tardiva da parte del debitore.
Ove, invece, il ritardo divenisse un vero e proprio inadempimento, il creditore può pretendere la penale per il ritardo e quella per l’inadempimento, se sono state previste entrambe, essendone ammessa la coesistenza, oppure la penale per il ritardo ed il risarcimento del danno per l’inadempimento, come danno ulteriore e diverso rispetto a quello coperto dalla penale.
Tale ultima soluzione garantisce il creditore dalla scelta della controparte di sottrarsi ad una penale divenuta molto gravosa rifiutandosi di adempiere definitivamente l’obbligazione.
Distinte dalla clausola penale, pattuita convenzionalmente dalle parti, sono le penali di fonte legale, previste in caso di inadempimento di alcuni tipi di obbligazioni.
È il caso del risarcimento non inferiore a cinque mensilità dell’ultima retribuzione, dovuto al lavoratore illegittimamente licenziato e quelle giudiziali imposte dal giudice alla parte soccombente in taluni giudizi, volte a rafforzare la sentenza di condanna, come nel caso della somma fissata nella sentenza in materia di contraffazione o lesione di marchio, per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata e per ogni ritardo nell’esecuzione dei provvedimenti contenuti nella sentenza stessa ex art. 66 L. Marchi.