L’invalidità negoziale, nella duplice forma disciplinata dal Codice Civile della nullità e dell’annullabilità, costituisce la risposta sanzionatoria dell’ordinamento a talune anomalie del negozio giuridico, in presenza delle quali quest’ultimo viene giudicato inidoneo a perseguire interessi meritevoli di tutela.
La nullità
Delle due forme di invalidità, la nullità rappresenta la forma più grave, in quanto implica l’inidoneità originaria del negozio di produrre qualsivoglia effetto giuridico.
In particolare, la nullità consegue a un giudizio di disvalore dell’assetto negoziale, a causa di gravi anomalie immanenti al contratto, che giustificano la sua inidoneità a vincolare le parti e ad esplicare gli specifici effetti che naturalmente conseguono ad un valido vincolo giuridico.
Dal contenuto dell’art. 1418 cod. civ., che elenca le anomalie generatrici della forma più grave di invalidità, si suole distinguere tra nullità virtuale, strutturale e testuale.
La prima ricorre allorquando la nullità non è espressamente dichiarata tale da una specifica disposizione di legge, ma è desumibile, attraverso l’attività ermeneutica dell’interprete, dalla contrarietà del contratto ad una norma imperativa posta a presidio di interessi generali dell’ordinamento.
La nullità strutturale, invece, è propria del contratto carente di uno requisiti essenziali previsti dall’art. 1325 c.c. o avente causa o motivi illeciti o un oggetto impossibile, illecito, indeterminato o indeterminabile.
La nullità testuale, infine, si configura ogni qual volta è la stessa legge a prevedere espressamente la nullità del negozio giuridico in presenza di determinate anomalie specificamente contemplate.
Dal punto di vista processuale, la nullità si connota per l’assolutezza e l’imprescrittibilità dell’azione.
A tal fine, l’art. 1421 c.c. dispone che la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice.
La ratio sottesa alla norma in esame, è quella di garantire che la nullità, proprio perché conseguente ad un contratto affetto da gravi anomalie e contrario ai principi generali dell’ordinamento, emerga in sede processuale, al fine di impedire che lo stesso costituisca il presupposto di una decisione giurisdizionale che ne postuli la validità o comunque la provvisoria attitudine a produrre effetti giuridici.
A garanzia della suddetta finalità, il legislatore ha ampliato la sfera dei soggetti legittimati alla relativa azione di nullità, non circoscritta alle sole parti del contratto, ma anche ai terzi.
Non si tratta, tuttavia, di una legittimazione processuale generalizzata a qualsiasi terzo, in quanto i terzi non devono essere portatori di un mero interesse generalizzato a far valere la nullità in quanto tale, a prescindere da un effettivo coinvolgimento seppur di riflesso nella vicenda contrattuale, ma devono avere, nel rispetto del principio della domanda sancito dall’art. 100 c.p.c., un interesse specifico alla declaratoria di nullità del contratto, in quanto da quest’ultimo possono accusare pregiudizi ai propri interessi.
Dal combinato disposto degli artt. 1421 cod. civ. e 100 c.p.c., è quindi possibile circoscrivere la platea dei terzi legittimati all’azione di nullità, agli aventi causa e ai creditori dell’alienante, in quanto gli unici che, potendo effettivamente rimanere pregiudicati dall’atto di disposizione patrimoniale posto in essere dal loro dante causa o debitore nell’ambito di un negozio nullo, hanno interesse che quest’ultimo venga privato ex tunc dei suoi effetti.
Come accennato, la nullità può anche essere rilevata d’ufficio dal giudice e ciò in ragione del fatto che quest’ultimo, nell’espletamento della precipua funzione di risolvere la controversia in applicazione della legge, è tenuto a fondare la propria decisione e conferire diritti alle parti del processo sulla scorta di atti non contrari alle norme giuridiche e ai principi generali che reggono l’ordinamento giuridico.
Da tanto consegue che, a fronte della domanda di una delle parti fondata su un negozio affetto da nullità, costituisce potere-dovere del giudice rilevarla, al contempo sottoponendo la questione alle parti ai sensi degli artt. 101 e 183, comma 4 c.p.c., nel rispetto del principio del contraddittorio e del divieto sancito dall’art. 101 c.p.c. di decisioni a sorpresa o per “terza via”.
La riferita rilevabilità d’ufficio, tuttavia, incontra dei limiti, in quanto deve coordinarsi con i principi che reggono il processo e, segnatamente, con il principio della domanda, con il principio dispositivo e con quello di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.
È quindi possibile e anzi doveroso per il giudice, rilevare la nullità del contratto, se la stessa emerga ex actis e non esuli dal contenuto delle domande articolate dalle parti nell’ambito del processo.
Sul punto, era opinione condivisa in dottrina e in giurisprudenza, che il potere del giudice di rilevare la nullità sussistesse ogni qual volta era in contestazione l’applicazione o l’esecuzione di un atto la cui validità rappresentava un elemento costitutivo della domanda.
Di contro, veniva escluso il dedotto potere officioso nei casi in cui la domanda fosse diretta a far dichiarare l’invalidità del contratto per una causa diversa da quella rilevabile dal giudice o a far dichiarare la risoluzione del contratto per inadempimento o l’annullamento o la rescissione, in quanto in tali ipotesi la pronunzia sarebbe stata viziata da ultra petizione e avrebbe conferito alle parti un diritto diverso o comunque più ampio di quello richiesto.
Tale tradizionale concezione, ha successivamente ceduto il passo all’orientamento oggi dominante e consolidato, in ultimo espresso dalle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. 12 dicembre 2014 n. 26242), del potere-dovere del giudice di rilevare la nullità in tutti i casi in cui la domanda delle parti si fondi sulla validità del rapporto giuridico, tra le quali rientrano tutte le azioni di impugnativa del contratto e quindi anche le domande di risoluzione, di annullamento e di rescissione che, per quanto finalizzare allo scioglimento del vincolo, presuppongono comunque la validità dello stesso.
Come sopra evidenziato, la nullità si connota anche per l’imprescrittibilità della relativa azione, caratteristica questa che si pone in linea di coerenza con la natura generale e indisponibile degli interessi presidiati, che giustificano la specifica finalità del legislatore a non porre ostacoli ad azioni tendenti ad eliminare dal mondo giuridico vincoli che contrastano con i valori fondamentali dell’ordinamento.
Ulteriore elemento che contraddistingue il contratto nullo è rappresentato dal fatto che lo stesso non può essere convalidato.
La ragione sottesa a tale divieto, scaturisce anche in questo caso dal fatto che la sovraindividualità dell’interesse violato, trascendendo i contraenti, determina l’indisponibilità dello stesso e l’insanabilità del vizio, salvo nei casi espressamente previsti dalla legge, limitati dal legislatore alla donazione ed alle disposizioni testamentarie nulle, sulle quali prevale il principio di conservazione del negozio a tutela dell’interesse del disponente.
La non convalidabilità del contratto nullo, non impedisce, tuttavia, che lo stesso possa produrre gli effetti di un diverso contratto, se di questo ha i requisiti di sostanza e di forma ed è idoneo a soddisfare gli interessi delle parti, avuto riguardo allo scopo dalle stesse perseguito.
L’annullabilità
Le caratteristiche sopra delineate, distinguono la nullità dall’annullabilità, discrimine incentrato principalmente nella diversa natura degli interessi violati, che giustificano un diverso regime sostanziale e processuale.
In particolare, a differenza della nullità, che costituisce la risposta dell’ordinamento alla violazione di interessi generali e indisponibili, l’annullabilità è posta a presidio di interessi disponibili della parte che nell’ambito del negozio ha espresso un consenso non del tutto consapevole o formatosi in maniera errata per cause alla stessa riconducibili, quali l’incapacità di intendere e di volere, o per fattori esterni contingenti, come l’inganno o le minacce altrui.
L’annullabilità, quindi, costituisce il rimedio generale a tutela della parte, alla quale è lasciata la scelta di decidere le sorti del contratto viziato, convalidandolo o sollecitandone la caducazione degli effetti mediante la specifica azione volta alla pronuncia dichiarativa dell’annullabilità entro il termine prescrizionale quinquennale.
La nullità di produzione
La distinzione tra le due forme di invalidità disciplinate dall’ordinamento è, quindi, fondata su un criterio prettamente qualitativo, afferente la specifica natura degli interessi coinvolti nell’autonomia negoziale delle parti, contraddistinti dalla generalità e dall’indisponibilità nel caso della nullità e nella natura particolare e disponibile nell’annullabilità.
Tale discrimine e il concetto stesso di assolutezza dell’azione di nullità, sono stati, tuttavia, messi in discussione con il fiorire di altre forme di nullità, per lo più di matrice comunitaria, poste a presidio di interessi particolari di specifiche categorie di soggetti.
In particolare, a partire dagli anni Ottanta, la normativa comunitaria degli scambi si è occupata con crescente interesse a disciplinare peculiari forme di protezione nei confronti di soggetti posti in posizione di debolezza contrattuale, privilegiando in particolare il settore della tutela del consumatore, in quanto connotato da rapporti contrattuali sbilanciati a causa di asimmetrie informative e di abuso di posizioni dominanti.
Uno degli strumenti giuridici di forgia comunitaria, atto a riequilibrare le asimmetrie contrattuali, è costituito dalle c.d. nullità speciali di protezione, la cui specifica funzione è quella di neutralizzare accordi conclusi in spregio alle norme poste a protezione del contraente debole, mediante l’imposizione unilaterale di clausole vessatorie che limitano o rendono gravoso l’esercizio dei suoi diritti e riducono o addirittura sottraggono ingiustificatamente l’altra parte dalle responsabilità contrattuali.
Contestualmente, nell’ordinamento interno, in recepimento delle direttive comunitarie consumeristiche, hanno visto la luce numerose forme di nullità finalizzate a sanzionare situazioni lesive di interessi individuali facenti capo a soggetti incapaci di provvedere efficacemente alla cura dei propri interessi, per le quali il rimedio dell’annullabilità era apparso inidoneo.
Molteplici sono i settori dell’ordinamento che contemplano le nullità di protezione per l’inosservanza di norme poste a tutela del contraente debole, quali, tra le altre, le norme sui contratti agrari, bancari e di credito al consumo, sui contratti di commercializzazione a distanza di servizi finanziari e le norme del Codice del consumo, tra le quali spicca, nello specifico caso che ci occupa, l’art. 36 che disciplina proprio la nullità di protezione.
I tratti distintivi di tali speciali forme di nullità, sono costituiti dalla relatività dell’azione e dalla rilevabilità d’ufficio, potendo essere fatte valere solo dai soggetti in favore dei quali tali nullità sono disciplinate e al contempo sottoposte al rilievo officioso subordinato all’utilità pratica che ne potrebbe derivare al soggetto protetto.
La nullità di protezione, quindi, per le peculiari caratteristiche che la connotano, si pone a metà strada tra la nullità e l’annullabilità, avendo recepito nella sua essenza le caratteristiche proprie di entrambe tali forme di invalidità.
In particolare, la nullità di protezione, così come l’annullabilità, è posta a presidio di interessi specifici di particolari categorie di soggetti, ai quali è rimesso il giudizio sull’opportunità e convenienza di mantenere in vita il regolamento contrattuale mediante la previsione di una legittimazione riservata di agire ed al contempo è rilevabile d’ufficio dal giudice, caratteristica quest’ultima che connota la nullità classica.
La coesistenza di tali caratteristiche, ha condotto parte della dottrina a ritenere la nullità di protezione una forma di annullabilità rafforzata, in quanto posta a presidio di interessi particolari, la cui azione, limitata solo in favore dei soggetti protetti, quali arbitri della sorte del contratto, si porrebbe in contrasto con il rilievo officioso, atteso che si conferirebbe al giudice il potere di sostituirsi alla parte nella scelta tra la caducazione e la conservazione del vincolo.
Tale orientamento, per quanto suggestivo, si contrappone al diverso pensiero della dottrina dominante, condiviso in ultimo dalle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. 12 dicembre 2014 n. 26242), secondo cui è invece ammissibile l’estensione alle nullità di protezione della rilevabilità d’ufficio dettata dall’art. 1421 c.c., sul rilievo che la legittimazione riservata in favore dei soli soggetti tutelati, non comporta l’esclusione ipso facto del rilievo officioso, a maggior ragione quando quest’ultimo opera in funzione di rafforzamento della tutela e di supporto nelle scelte processuali del contraente debole, che potrebbe non essere consapevole dei rimedi accordatigli dal legislatore.
Assume, altresì, rilievo troncante il fatto che le nullità di protezione, funzionali a ricondurre ad equilibrio scelte negoziali contraddistinte da asimmetrie informative e di posizione, siano poste a presidio di eterogenei interessi non riconducibili esclusivamente alla parte tutelata, ma anche e soprattutto all’intera collettività.
È stato sul punto osservato dalla dottrina maggioritaria, che la ratio della nullità di protezione si rinviene dall’introduzione nel nostro ordinamento di un nuovo concetto di ordine pubblico di protezione, costituito da norme imperative e inderogabili che, pur primariamente ispirate a tutelare una specifica categoria di soggetti giuridici appartenenti a ceti o a gruppi sociali caratterizzati da una situazione di particolare debolezza e vulnerabilità, soddisfano al contempo un interesse generale.
Le nullità di protezione, infatti, hanno la precipua funzione di neutralizzare accordi che costituiscono espressione di situazioni di squilibrio contrattuale causate da abuso di posizione dominante e di dipendenza economica, che generano affidamenti precari e violano valori di rilievo costituzionale e interessi generali, quali l’equilibrio contrattuale, l’uguaglianza dei contrenti ed il corretto funzionamento del mercato.
Del resto, la natura pubblicistica degli interessi sottesi alle norme poste a tutela dei contraenti deboli, è stata confermata anche dalla Corte di Giustizia Europea, affermando sul punto che tali norme e le direttive consumeristiche, tra tutte la Direttiva 93/13 CEE, soddisfano il primario interesse generale al regolare ed equilibrato funzionamento del mercato, nel quale le situazioni di squilibrio, causate dai poteri forti, costituiscono una stortura da neutralizzare attraverso la fattiva e concreta tutela del contraente debole.
In considerazione della ratio sottesa alle direttive unionali consumeristiche, l’intervento del giudice, secondo la Corte di Giustizia, è non solo essenziale per l’effettiva e concreta tutela del contraente debole, ma anche doveroso e non subordinato all’iniziativa processuale del consumatore, che non può essere gravato della relativa eccezione per ricevere tutela, esplicitandosi in un vero e proprio obbligo di esaminare d’ufficio la natura abusiva della clausola contrattuale e quindi disapplicarla tranne nel caso in cui il consumatore vi si opponga.
L’intervento officioso non può, altresì, non esplicarsi anche nello specifico dovere del giudice di interpellare il consumatore ogni qual volta quest’ultimo non abbia lamentato la vessatorietà della clausola nei propri scritti difensivi, al fine di indagare se tale mancato rilievo costituisca un difetto di difesa o manifestazione della volontà di convalidare la clausola per ragioni di convenienza.
In esito al doveroso interpello, quindi, il giudice dovrà adottare i provvedimenti conseguenziali, astenendosi dal dichiarare la nullità della clausola solo quando il consumatore, debitamente interpellato, abbia dichiarato di non volersi avvalere della nullità o quando tale declaratoria possa pregiudicare i suoi interessi.
Al fine di poter validamente e concretamente esercitare il potere di intervento finalizzato alla tutela del contraente debole, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha riconosciuto al giudice ampi poteri istruttori, affinché il suo controllo non possa subire limitazioni da una carente attività istruttoria delle parti ostativa al raggiungimento della verità.
Ciò detto, occorre ora verificare la compatibilità degli strumenti di tutela previsti dalle direttive consumeristiche, così come interpretate dalla Corte di Giustizia, con le norme che regolano il processo civile nel nostro ordinamento.
Sul punto, la Corte di Giustizia ha avuto modo di affermare che le direttive comunitarie disciplinanti la tutela del consumatore nell’ambito di accordi negoziali contraddistinti dalla presenza di clausole vessatorie e abusive, non possono vincolare il giudice ad un intervento officioso che confligga con i principi che reggono il processo, pur avendo quest’ultimo il dovere di interpretare le norme interne conformemente a quelle del diritto europeo.
Per la risoluzione della questione occorre richiamare l’art. 1421 c.c., da leggere in combinato disposto con le norme ed i principi che reggono il processo civile, con la conseguenza che è lasciato alle parti, nel rispetto del principio dispositivo, il compito di offrire al giudice l’input per l’esercizio del potere di rilevare d’ufficio la nullità anche in assenza dell’espressa domanda della parte, ma solo qualora la valutazione venga resa possibile dagli atti processuali.
Principio questo, in linea con le norme comunitarie come interpretate dalla Corte di Giustizia, che sul punto ha affermato che il dovere del giudice di rilevare la nullità scatta nel momento in cui lo stesso ha a disposizione gli elementi di fatto e di diritto per esplicitare il potere officioso, intervenendo, ove occorra, a sollecitare l’integrazione istruttoria.
Il potere officioso va, altresì, coniugato con il principio del contraddittorio, con la conseguenza che l’obbligo di condurre la valutazione sull’abusività delle clausole contrattuali non può prescindere dall’obbligo di garantire il contraddittorio sulla specifica questione, perché il diritto comunitario non impone ai giudici nazionali di sollevare d’ufficio un motivo basato sulla violazione di disposizioni comunitarie, qualora tale motivo li obblighi ad esorbitare dai limiti della lite circoscritta dalle parti, basandosi su fatti e circostanze diversi da quelli che la parte processuale ha posto a fondamento della propria domanda.
In tal modo il consumatore diviene il sovrano della valutazione relativa alla caducazione o meno della clausola, decidendo se paralizzare l’esercizio dei poteri officiosi o se manifestare il proprio interesse alla nullità della regola contrattuale.
A questo punto, però, occorre domandarsi come potrebbe esplicitarsi il potere officioso del giudice nell’ipotesi di contumacia del consumatore o nei casi in cui quest’ultimo non prenda posizione sulla validità o meno della clausola abusiva o fondi la sua difesa sulla validità della stessa, nonostante sia a lui sfavorevole.
Se nel primo caso segnalato non dovrebbero sorgere dubbi circa il potere del giudice di rilevare e dichiarare la nullità della clausola abusiva, in quanto la contumacia non è di per sé indice della volontà di non avvalersi della nullità, più spinosi appaiono gli ulteriori casi segnalati che potrebbero verificarsi nella prassi.
Sul punto occorre evidenziare che la dottrina più recente ammette che il comportamento processuale del consumatore, che non prende posizione sulla nullità della clausola o fonda la sua difesa sulla validità della stessa, possa tradursi in una rinuncia tacita ad avvalersi della nullità.
Tale interpretazione, tuttavia, seppur condivisa dalla giurisprudenza, potrebbe confliggere con l’orientamento della giurisprudenza unionale, che sul punto richiede al giudice di non applicare la clausola nulla tranne nel caso in cui il consumatore vi si opponga, presupponendo così un intervento attivo al fine di evitare la declaratoria di nullità.
Negli ultimi anni si è, peraltro, assistito anche ad un fiorire di studi riguardo alla sanabilità e alla rinunziabilità della nullità di protezione, ed in particolare alla questione se con riguardo ad essa sia ammissibile la convalida in deroga a quanto previsto dall’art. 1423 c.c.
Una recente dottrina ha ritenuto di dover leggere il dato della relatività proprio in termini di sanabilità, nel senso che se il legislatore ha ristretto la legittimazione a far valere la nullità di protezione al solo soggetto in favore del quale è disciplinata, allora si deve conseguentemente ammettere che questi sia anche in grado di convalidare la clausola.
Per altri, invece, dal comportamento processuale del consumatore che preferisce non far valere la nullità, per quanto stimolato sul punto dal giudice nel rispetto del principio del contraddittorio, non possono conseguire gli effetti sostanziali propri della convalida, ma effetti esclusivamente circoscritti al processo, con la conseguenza che lo stesso consumatore ove, relativamente allo stesso rapporto sia successivamente chiamato in un diverso giudizio, potrà optare per una diversa scelta difensiva e, se del caso, far valere la nullità.
Quest’ultimo orientamento sembrerebbe più coerente ai principi sostanziali e processuali propri della nullità negoziale, atteso che la nullità di protezione, per quanto sia a legittimazione riservata, coinvolge interessi anche generali quali la tutela del mercato, della concorrenza e dei traffici giuridici, in quanto tali indisponibili.
Da tanto discende che l’inerzia del soggetto legittimato ad intentare l’azione di nullità o la spontanea esecuzione del contratto nullo ad opera del medesimo, più che convalidare il contratto sul piano sostanziale, impediscono al giudice di dichiarare la nullità del contratto e consentono sul piano processuale che si formi il giudicato sulla validità del contratto, che semplicemente preclude ulteriori indagini sulla medesima questione.