Dove il legislatore non ha mai introdotto alcun dato normativo in relazione ad istituti “chiave” del nostro sistema emerge il solito dubbio sul se, questa mancanza, sia volontaria o involontaria. L’assenza, infatti, di un riconoscimento normativo da parte del legislatore implica l’emersione di dibattiti dottrinali e giurisprudenziali che non riescono ad “agganciare” la loro struttura ermeneutica ad alcun riferimento concreto. Per questo motivo, quando il legislatore omette di esplicitare un istituto giuridico, la prima operazione interpretativa da fare è cercare di ritrovare nell’intero ordinamento giuridico un altro istituto, similare, cui poter fare riferimento per l’applicazione analogica del dato normativo.
L’istituto della presupposizione, come tanti altri istituti, non trova alcun esplicito riconoscimento normativo
si rende necessario, quindi, capire in che modo possa incidere sul contratto e quali possano essere le conseguenze applicative.
Secondo la dottrina risalente la presupposizione sarebbe una condizione risolutiva implicita, non esplicitata nel negozio, che condizionerebbe la permanenza del rapporto contrattuale alla permanenza di una situazione tenuta presente da entrambe le parti al momento dell’assunzione del vincolo.
La presupposizione è configurabile quando, da un lato, un’obiettiva situazione di fatto o di diritto possa ritenersi essere stata tenuta in considerazione dalle parti contraenti nella formazione del loro consenso – pur in assenza di espresso e specifico riferimento ad essa nell’articolato negoziale – come presupposto condizionante la validità e l’efficacia del negozio, e , dall’altro, il venir meno o il verificarsi della situazione stessa sia del tutto indipendente dalla volontà e dalla condotta dei contraenti e non sostanzi l’oggetto di alcuna delle obbligazioni assunte dagli stessi.
L’istituto della presupposizione rintraccia le proprie origini nella dottrina germanica ( unentwickelte bedingung), in particolare la teoretica della presupposizione è riconducibile a Windscheid, già autore della teoria del c.d. contatto sociale. La presupposizione veniva identificata come una “condizione non sviluppata”. In particolare si configurava come un fondamento della volontà, confluita nel contratto. La volontà, fondamento e sostanza del contratto, si riflette, anche oggi, non solo nella causa in concreto ma, a volte, può radicarsi nell’intenzione di produrre un dato effetto giuridico “a condizione” ( appunto) che permanga una data situazione di fatto o di diritto. Nell’elaborazione giuridica tedesca l’istituto è stato fortemente criticato: in quanto, si è osservato, che la presupposizione condizionava troppo i traffici commerciali.
In Italia gli studi sulla presupposizione sono stati fortemente legati all’istituto delle sopravvenienze. Il collegamento tra presupposizione e sopravvenienze può cogliersi nell’art. 1467 cod civ in cui si scorge “la rilevanza giuridica della sopravvenienza imprevedibile”. L’evoluzione ermeneutica dell’art. 1467, sempre più inteso come disposizione regolante gli effetti della sopravvenuta deficienza causale del negozio, ha nel tempo contribuito a distinguere il concetto di sopravvenienza da quello di presupposizione, separando, da un lato, il problema del contenuto “implicito” del contratto da quello della sopravvenienza di circostanze esterne incidenti sotto il profilo causale, di modo che, se diverse sono le cause che incidono sulla coerenza dell’articolato negoziale rispetto alla volontà delle parti, la presupposizione non può essere ricondotta nell’alveo delle sopravvenienze.
La dottrina italiana, sul tema della presupposizione, ha assunto posizioni differenti. In particolare il principale tratto di unione tra gli studiosi ha riguardato la collocazione dogmatica dell’istituto.
Alcuni autori, confortati da recenti opinioni giurisprudenziali, hanno inteso ricondurre l’istituto nell’alveo della causa negoziale ovvero nell’ambito della dinamica degli interessi sottesi al negozio. Degli interessi, per la precisione, che il singolo intende realizzare mediante la stipulazione ed esecuzione di un contratto. In questi termini la presupposizione si radica all’interno della sintesi degli interessi che in concreto le parti intendono realizzare ( rectius causa in concreto).
In tale prospettiva è possibile spiegare la rilevanza della presupposizione ( rimarcando ogni distinzione tra causa in concreto e causa in astratto) in rapporto all’interesse che ciascuno è diretto a realizzare. Orbene in una siffatta collocazione dogmatica la presupposizione consisterebbe nell’individuare, secondo un’operazione ermeneutica, quegli interessi qualificanti la singola operazione, quegli interessi “penetrati” nella causa del contratto. Ne discende che la loro mancanza o falsità inciderebbe sulla validità del contratto, in quanto ne verrebbe a mancare o sarebbe viziata la causa dello stesso.
Altra parte della dottrina, invece, cerca di collocare l’istituto della presupposizione nell’ambito del fenomeno della regolazione delle sopravvenienze. In altre parole l’istituto in parola comporta l’analisi circa la congruità delle circostanze sopravvenute rispetto all’equilibrio economico del contratto, così che il venir meno o il verificarsi di un fatto implicitamente presupposto, che di per se determina un iniquo ed imprevedibile squilibrio nella distribuzione dei rischi contrattuali, possa essere “gestito” attraverso un’equa distribuzione del rischio, ovvero, conferisca il potere di risolvere il rapporto.
Si evidenzia come proprio la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta è accordata in tutti quei casi in cui, nei contratti a prestazione continuata o periodica o, ancora, ad esecuzione differita nel tempo, il sopravvenire di eventi straordinari ed imprevedibili determini un sostanziale squilibrio del sinallagma contrattuale, dovendosi così ritenere in ogni programma negoziale la clausola rebus sic stanti bus, in base alla quale l’efficacia del contratto per il futuro è sempre subordinata al mantenimento del tempo delle posizioni contrattuali di partenza.
La dottrina più recenti non ha mancato di richiamare in tema di presupposizione la clausola della buona fede come canone di interpretazione del contratto. Tuttavia, quindi, anche chi ha inquadrato il fenomeno della presupposizione nell’ambito della distribuzione dei rischi ha dovuto ammettere la rilevanza della buona fede nell’integrazione contrattuale, di modo che, in forza di tale clausola generale, sarebbe consentita un’eterointegrazione del contenuto del negozio con la esplicitazione di circostanze pur non espressamente regolate dalle parti, ma parimenti essenziali.
È stato osservato ( Bianca) che il contratto, alla luce dell’art. 1374 cod civ obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge e, in mancanza, secondo gli usi e l’equità, sicchè non può escludersi che tra le conseguenze previste dalla legge non vi possa essere anche l’obbligo di interpretare il contratto secondo buona fede ( art. 1366 cod civ) e di eseguirlo in conformità a tale canone ( 1375 cod civ).
Secondo tale tesi, allorchè il contratto non possa assolvere alla funzione cui lo stesso è preordinato in forza della clausola di buona fede, le conseguenze sarebbero l’integrazione del contenuto del contratto nei limiti in cui ciò non comporti apprezzabili pregiudizi per la controparte, la modificazione della prestazione o l’accettazione della modifica della prestazione della controparte, la rinegoziazione delle clausole ovvero, nei casi più gravi, l’inefficacia del negozio giuridico. La teoria che lega la presupposizione alla clausola della buona fede è il portato dell’estensione della funzione della buona fede che originariamente rappresentava il canone sulla base del quale valutare esclusivamente l’adempimento diligente.
La presupposizione è, quindi, al centro di molteplici osservazioni dottrinali. La giurisprudenza, almeno quella più recente afferma che “il presupposto per l’applicazione dell’istituto della presupposizione è rappresentato dall’inerenza specifica dell’interesse, o condizione, sotteso al contratto, alla causa del contratto stipulato. Come è affermazione pacifica in dottrina e nella stessa giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 19144 del 23/09/2004), la ‘presupposizione’ è configurabile quando, da un lato, un’obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi che sia stata tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso – pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali – come presupposto condizionante la validità e l’efficacia del negozio e, dall’altro, il venir meno o il verificarsi della situazione stessa sia del tutto indipendente dall’attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all’oggetto di una specifica obbligazione dell’uno o dell’altro” (CORTE DI CASSAZIONE – SEZ. VI – 2 – ORDINANZA 4 maggio 2015, n.8867).
A quanto consta non vi è una posizione “dominante” che riesca ad includere l’istituto in esame all’interno di altri istituti giuridici. la presupposizione assume, quindi, valenza autonoma e si fregia di conseguenze applicative del tutto peculiari rispetto agli istituti ai quali viene accostata.
Dunque ciò che occorre analizzare, secondo la giurisprudenza, è il caso concreto, le applicazioni pratiche: le conseguenze che derivano dall’inosservanza o dal venir meno della presupposizione.
Sotto il profilo delle conseguenze operative, infatti, il giudice deve accertare se il venir meno della presupposizione costituisca un elemento rilevante per il principio ex art.1467 cc ai fini della validità ed efficacia del negozio. A tal fine, l’indagine sull’esistenza della presupposizione si esaurisce sul piano dell’interpretazione contrattuale. Se la circostanza presupposta viene meno durante l’esecuzione del contratto si può dare luogo alla risoluzione; se invece viene meno già prima della conclusione del contratto, il contratto è nullo. Si precisa che la presupposizione integra un’ipotesi di scioglimento del contratto, non
espressamente prevista dalla legge, ma elaborata da giurisprudenza e dottrina.
La sentenza n. 12235 del 25 maggio 2007 della Suprema Corte ha accolto un orientamento innovativo in materia di presupposizione. Questa pronuncia si discosta dalla teoria dominante che vede nella presupposizione una condizione inespressa, tesi accolta dalla giurisprudenza dominante sino al 2006, nonchè da un diverso indirizzo (cfr. cass. Civ. n. 6631 del 2006) che si è riferita alla presupposizione come ad un difetto sopravvenuto della causa in concreto, un’impossibilità sopravvenuta di realizzare l’assetto d’interessi contrattuale.
La pronuncia del 2007, si riferisce, nel percorso argomentativo a tre diversi elementi che caratterizzano il contratto; esso sarebbe caratterizzato, in via generale, dai presupposti causali, dai presupposti che entrano nel contenuto dell’obbligo contrattuale (ovvero nella fase esecutiva del medesimo) e dai presupposti specifici che sono, invece, rappresentati dalle circostanze esterne al vincolo. I presupposti causali sono tutti quei presupposti nei quali si concretizza la funzione economico individuale che le parti intendono realizzare. Poi vi sono quegli elementi dell’obbligo contrattuale relativi alla fase d’esecuzione del rapporto. I presupposti specifici sono, invece, le circostanze esterne che non riguardano nè la causa nè l’esecuzione ma che si possono desumere dalle clausole contrattuali. Nell’ambito di tale tripartizione la presupposizione riguarderebbe le circostanze esterne del contratto, il venir meno di esse legittimerebbe la parte all’esercizio del diritto di recesso. Le sentenze nn. 6631/06 e 3579/08 hanno, invece, evidenziato il carattere composito dell’istituto, osservando come lo stesso si collochi in una zona intermedia tra la condizione risolutiva implicita ed il venir meno della causa in concreto. Il mantenimento del vincolo contrattuale, secondo la tesi della causa in concreto, è condizionato al mantenimento della possibilità di perseguimento di quell’assetto di interessi cristallizzato nel contratto.