Risoluzione di Diritto del Contratto

In questa guida spieghiamo in cosa consiste la risoluzione di diritto del contratto.

La risoluzione del contratto è un istituto giuridico, che scioglie il vincolo contrattuale. Non colpisce il negozio e può essere fatto valere solo prima che il contratto venga eseguito compiutamente. Esso può intervenire non solo sulla base di una pronuncia giudiziale, ma anche automaticamente, di diritto, in tre ipotesi espressamente previste dal codice civile. In questi casi, la risoluzione si ha in modo autonomo, per il solo fatto che si sia verificata la fattispecie prevista.

L’intervento del giudice non si può escludere per i casi di decorso del termine, che le parti avessero pattuito espressamente come essenziale. A questo punto, se il contraente non inadempiente non comunica all’altra parte e entro il termine di tre giorni l’intenzione di fare salvi gli effetti del negozio, questi si considera risolto.

La pronuncia del giudice, che si limitasse a verificare l’intervenuta risoluzione del contratto, avrebbe natura solamente dichiarativa e non costitutiva. Le ipotesi di risoluzione di diritto previste dal codice civile sono la diffida, il termine essenziale e clausola risolutiva espressa.

La risoluzione di diritto si ottiene senza una necessaria pronuncia del giudice che abbia carattere costitutivo. Alla sua base vi è l’autonomia delle parti per evitare uno stato di prolungata incertezza conseguente alla proposizione di una domanda di risoluzione giudiziale. Specie nell’era attuale, dove le transazioni avvengono con notevole celerità, l’incertezza sulle esposizioni delle parti agli effetti di un negozio sarebbe un danno, che la stessa legge cerca di evitare.

Il primo caso di risoluzione di diritto, dicevamo è la diffida a adempiere, che deve essere proposta alla parte inadempiente. La prima può intimare per iscritto di adempiere all’obbligazione pattuita entro un congruo termine, dichiarando che, decorso infruttuosamente tale termine, il contratto si ritiene risoluto. Il termine non può essere inferiore ai 15 giorni, salvo che le parti non abbiano pattuito diversamente, oppure nei casi per cui la natura del contratto o stando agli usi, risulti congruo un termine diverso.

La diffida a adempiere è un negozio unilaterale recettizio e revocabile, che assume la forma scritta. Per la Corte di Cassazione, essa ha lo scopo di consentire alla parte adempiente di avvalersi di un nuovo termine di decadenza, di fatto segnalando all’altra parte di volere dare seguito ugualmente al contratto, pur essendo decorso infruttuosamente il termine essenziale pattuito. Si tratta chiaramente di una facoltà, non un obbligo, così come è sempre facoltà della parte adempiente, rientrando nei suoi poteri contrattuali, rinunciare agli effetti negoziali già prodottisi.

Gli elementi essenziali della diffida sono l’intimazione di adempimento, la fissazione di un nuovo termine entro il quale adempiere all’obbligazione contrattuale e la menzione di risoluzione del contratto, nel caso in cui il nuovo termine sia decorso infruttuosamente.

Altro caso di risoluzione di diritto è la clausola risolutiva espressa. L’art.1456 c.c. recita che i contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. In questo caso, la risoluzione avviene di diritto quando la parte adempiente comunica all’altra di volersi avvalere della clausola.

Derogando alla regola generale, la clausola risolutiva espressa, quindi, assegna alla parte adempiente il potere potestativo di ottenere la risoluzione del contratto per l’inadempimento dell’altra parte senza doverne provare l’importanza. In genere, tale clausola fa parte dello stesso contratto, ma in alcuni casi è pattuita con un atto autonomo, la cui forma deve essere uguale a quella del contratto a cui si riferisce.

Le parti devono specificare quali obbligazioni devono essere adempiute, pena la risoluzione. Secondo la Cassazione, poi, i casi di risoluzione non sono limitati solo a quelli previsti dalle clausole espresse, valendo la regola generale, per cui in caso di inadempimento la risoluzione del contratto può essere verificata dal giudice, provata l’importanza dell’inadempimento. Le clausole di cui sopra, invece, non rendono necessaria la valutazione del giudice.

Terzo e ultimo caso di risoluzione di diritto è il termine essenziale. A tale proposito, l’art.1457 c.c. stabilisce che se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale nell’interesse dell’altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole esigerne l’esecuzione nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia all’altra entro tre giorni. In mancanza, il contratto s’intende risoluto di diritto.

Dunque, scaduto infruttuosamente il termine, il contratto è risoluto di diritto, anche se la parte adempiente non ha intimato all’altra parte di adempiere. Questa decadenza può essere evitata dal creditore, il quale entro il termine di tre giorni da quello pattuito nel contratto, deve intimare all’altra parte un nuovo termine entro cui adempiere.

Ai fini processuali, pur in presenza dell’inutile decorso del termine essenziale, è necessaria istanza di parte per dichiarare il contratto risoluto. Ciò significa che la risoluzione di diritto implica che la sentenza con cui il giudice verifica i presupposti della medesima ha valore dichiarativo e non costitutivo.

Si consideri, infine, che il contratto non si risolve di diritto, quando l’obbligato non abbia adempiuto all’obbligazione entro il termine essenziale per ragioni di temporanea impossibilità a esso non attribuibili.

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